Per tanti anni si è sentito parlare di personalizzazione della politica, ossia di quel processo che fa sì che ci si identifichi coi leader dei singoli partiti senza curarsi troppo dello schieramento in sè. L'Italia del dopo Tangentopoli ha vissuto sull'eterno referendum tra favorevoli e contrari a Silvio Berlusconi. Il suo ingresso in politica prometteva di cambiare la storia del nostro paese, ma il risultato finale è stato decisamente misero: una classe dirigente sempre più corrotta, professionisti delle poltrone ben ancorati al proprio posto, meritocrazia azzerata e cooptazioni mirate. Il tutto sulla pelle di un popolo la cui sovranità costituzionale suonava sinistramente beffarda di fronte a cotanta arroganza. Formalmente sovrani, sostanzialmente sudditi, i cittadini hanno ultimamente manifestato il loro sdegno per questo modo curioso di intendere gli affari pubblici. Sia chiaro che le colpe di tale deriva sono da estendere all'intera classe parlamentare che ha contraddistinto la recente storia repubblicana. Una parola straniera ha preso piede nel linguaggio politico italiano, stroncando sul nascere le plurime e legittime riflessioni popolari: leadership. Parola ripetuta come un mantra obbligatorio dalle forze in gioco, più preoccupate di trovare un simbolo visivo che una più urgente sintesi concettuale. Così tutti hanno aspettato il demiurgo, il principe machiavellico pronto a risolvere i molteplici problemi all'orizzonte, un qualcuno che fosse capace di trascinare le folle.
Si è arrivati così alla sovraesposizione dei leader, dalle cui dichiarazioni si giocava il destino di tutti. Leader o meglio padroni fintamente democratici, legittimati da una legge elettorale sconcertante a nominare i rappresentanti di 60 milioni di cittadini.
Nel PdL si sente spesso ripetere la formula "leadership indiscussa", ossia la perfetta aberrazione della dialettica politica, il completo svuotamento dell'essenza democratica. Dall'altra parte invece la discussione è stata ben più accesa, ma ha per lo più riguardato lotte di potere interne e non un reale scontro su visioni diverse.
Sto leggendo un libro molto interessante di Antonio Vitullo, filosofico esperto di marketing , che distrugge il concetto di leadership. Il titolo è fortemente simbolico: "Leadershit". L'idea di fondo è quella di rottamare la mistica del capo che indica la via ai propri seguaci per cambiarla con una più razionale presa di coscienza collettiva che renda più orizzontale l'intera società. "C'è tanto oggi sotto i nostri occhi. È importante riuscire ad andare oltre le solite parole. Leader, leadership, modelli per organizzare e farsi organizzare dal mondo, retoriche e mitologie che ci avvolgono come un velo sottile a confondere e coprire altri punti di vista sulla realtà".
In un mondo in cui diventa sempre più facile acquisire conoscenze, l'idea weberiana del potere carismatico appare sempre più anacronistica. È finito il tempo dei plebisciti e delle investiture. Meglio investire su se stessi e smettere l'abito da "fan". È ora di pensare con la propria testa, di cercare nuove strade, senza farsi etichettare in via pregiudiziale.
Questa sarebbe l'alba di una vera res publica.
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