sabato 9 luglio 2011

Dal basso. A patto di volare alto.

La partecipazione popolare che ha contraddistinto le recenti consultazioni elettorali, quella referendaria in primis, è senza dubbio un segno positivo per la società italiana. È stata giustamente letta come un gesto di protesta verso una classe politica distante dalla gente e contro un modo di occuparsi delle cose pubbliche con scarsa trasparenza.
Appurato questo, bisogna però soffermarsi sullo stato reale della democrazia italiana e su cosa significhi governare un paese nel 2011. Ogni stato moderno che si rispetti necessita di un potere politico competente, organizzato in partiti, da cui vengono eletti i rappresentanti popolari; quanto più la gente sarà informata, tanto più preparati dovrebbero essere gli eletti. Il sistema italiano ha però generato un evidente cortocircuito nel meccanismo di rappresentanza. Una pessima legge elettorale, incentrata su una poco rappresentativa bipolarizzazione e sull'elitarismo delle liste bloccate, ha alzato un recinto in cui la pletorica classe dirigente è arroccata.
Tuttavia il rimedio per ovviare alle storture di questo perverso sistema è discutibile; i cittadini hanno partecipato in massa ai quesiti referendari ma quanto è oggettivamente e socialmente utile la loro opinione su quesiti tecnici? Temi come energia, gestione idrica e giustizia presuppongono una certa preparazione specifica e a elaborare corrette proposte legislative sarebbero chiamati gli eletti. È il compito per il quale sono più che lautamente pagati dall'intera comunità.
Potremmo parlare di iniqua ripartizione di competenze o di abdicazione della politica al suo ruolo di guida. Dire da cosa nasce questo processo è fin troppo semplice: l'Italia è un paese umorale, in cui qualsiasi scontro viene radicalizzato al punto che non si propende per una tesi o per un'altra, ma si "tifa" per l' una o per l'altra fazione. Al contrario è poco radicata nel paese una diffusa preparazione civica; la scarsa lettura dei giornali e in generale l'attitudine storica al clientelismo ne sono testimonianza. Mai hanno attecchito in Italia sistemi di controllo indipendenti dal potere politico, autorità effettivamente slegate da nomine governative. L'intera società è segnata da un'infinita proliferazione di enti in cui conta più l'appartenenza rispetto a competenze specifiche. È il modo subdolo con cui i partiti  controllano e guidano il consenso. La consultazione referendaria, sporadica e solo abrogativa, è un contentino di dubbia utilità generale.
Sarebbe molto più utile una complessiva riforma dell'architettura istituzionale che preveda  una discussione parlamentare di disegni di legge popolari un giorno alla settimana, nonché una completa ridefinizione del sistema di selezione della classe dirigente, ancorandola a trasparenti preferenze.
Solo così la partecipazione sarebbe davvero un fenomeno rilevante e la gente sarebbe incentivata a una continua presa di coscienza quotidiana del bene pubblico.
Finché continuerà a essere tollerata la cultura del privilegio che fa della "casta" un caso unico in Europa, ciò non sarà possibile. Ben venga allora un eventuale referendum sulla sproporzione degli stipendi dei "politici" rispetto alla loro effettiva produttività. Sarà forse utopia, ma è l'unica via credibile per tornare a vedere la luce. Sperando che una nuova classe illuminata riaccenda l'interruttore.

mercoledì 6 luglio 2011

Temporeggio ma non mollo.

I politici di oggi, a guardarli da fuori, fanno quasi tenerezza; arroccati nelle loro aule parlano di cose piccole, fanno compromessi contorti, strategie di lungo termine e leggi personali. Fuori da Montecitorio la società parla un linguaggio completamente diverso. In nessuna epoca storica si ricorda un tale scostamento tra opinione pubblica e rappresentanti del potere. Tralasciando le solite manomissioni legislative del futuro Partito degli Onesti (che coraggio...), guardiamo la maggiore forza di opposizione, quel PD che nella politica del bunga bunga ha apertamente scelto il ruolo dell'eunuco. I fatti dell'ultima settimana hanno smascherato la preoccupante fragilità di uno schieramento appiattito su una linea attendista da Italia calcistica degli anni '60. Catenaccio. Tutti dietro, timidi e mai pungenti, sebbene il pubblico dagli spalti urli di attaccare.
Sbaglia Di Pietro a dire che Bersani ha tradito le promesse elettorali: nel 2008 il programma non l'ha scritto lui, ma un altro segretario, che aveva parlato di "accorpamenti" e non di eliminazione delle province, alla faccia dei tagli alle spese inutili. Veltroni all'epoca sapeva che ci sono fili che non si possono toccare; al di là delle intenzioni sbandierate, i vari feudi locali portano voti e consensi, nonché banali posizioni di piccolo potere. Adesso si parla di una necessaria riflessione sulla ripartizione di competenze, ma sembra più percorribile la tesi dell'attendismo storico di questa "grande forza riformista", incapace in realtà di uscire dal guscio.
Non sono traditori, sono "temporeggiatori". Quanti disegni di legge annunciano?  Stanno lavorando da anni a una riforma della legge elettorale, ma non ne esce mai una. Sulle energie rinnovabili hanno annunciato grandi progetti, puntualmente dispersi dopo la sbornia referendaria. Ironizzano sull' inutilità delle grandi opere del governo, ma poi fanno l'occhiolino a quell'obbrobrio del traforo in Val di Susa.
È questo il paradosso della situazione attuale: mentre la società crea connessioni di ogni tipo che avvicinano le persone, infrangendo barriere, la politica continua a non creare le infrastrutture necessarie per alimentare la ripresa economica di certe aree del paese, pensando invece a follie maestose che sconquassano zone non bisognose di tali interventi. Perché il PD non fa una battaglia seria sui pessimi collegamenti ferroviari da Roma in giù o su un serio ammodernamento della leggendaria Salerno-Reggio Calabria? È inutile attaccare il federalismo leghista se poi non si propone niente per permettere una vera ripresa di chi, per ora, non ha gli strumenti necessari.
E poi ci vogliono segnali veri: Fassino, per dirne uno, non ha ancora lasciato il seggio di deputato, come aveva promesso in campagna elettorale a Torino. Continua a rimandare. Temporeggia. Come tutto il PD.
Intanto però il treno sta passando. E visto che potrebbe essere un TAV, sarà il caso di decidersi. 
Fosse anche solo per liberare i binari. 

lunedì 4 luglio 2011

In una valle di lacrimogeni.

È andata bene. Non la protesta. È andata bene e basta. Siamo andati a un passo dal dover piangere un altro Carlo Giuliani, ma per un fortunato destino ciò non è successo. Trovo perfettamente legittime e razionali le ragioni del movimento No Tav in Val di Susa e credo che la costruzione del nuovo tratto ferroviario sia un immane spreco di denaro pubblico.
Detto ciò, quello che è successo ieri è vergognoso e la colpa ricade su chi ha inopinatamente voluto trasformare un imponente dissenso pacifico in una violenta contrapposizione fisica. Così come a Genova dieci anni fa, gli organizzatori hanno colpe imperdonabili per l'accaduto. Al di là delle ipocrisie di sorta, i responsabili dei cortei sapevano bene come la situazione potesse degenerare da un momento all'altro, ma hanno continuato a soffiare sul fuoco, usando un lessico militare.
Dovevano essere i valsusini in massa a opporsi allo scempio della Tav e invece la loro causa è stata il pretesto per una guerriglia tra poveri, per giunta spesso neanche indigeni.
Scene deprimenti, altro che eroi. Da una parte professionisti dello scontro travestiti da manifestanti, dall'altra forze di polizia totalmente impreparate e mandate allo sbaraglio da uno Stato mai così assente.
I primi, evidentemente senza peccato, pronti a scagliare pietre contro agenti, intenti a loro volta a sparare lacrimogeni ad altezza d'uomo. Era ovvio che sarebbe finita così e fa ancora più male pensare che era prevedibile.
Era interesse di chi voleva delegittimare il movimento fare in modo che la protesta avesse questo risultato. 
Il solito ritornello del "non si può dialogare con gli estremisti" sta già risuonando, stroncando sul nascere qualsiasi civile contrapposizione dialettica sull'opportunità dell'opera. In migliaia si sono coperti il volto e hanno attaccato i poliziotti, definiti "servi del potere" ma in realtà vittime quanto loro del vuoto politico del nostro paese. Colpire loro per colpire lo Stato è un adagio tanto anacronistico quanto superficiale. Ha detto Grillo, senza distinzioni, che i manifestanti sono "eroi". Casini gli ha ribattuto, dicendo che gli eroi sono i poliziotti e gli operai. Fuori strada entrambi. 
Non c'erano eroi in Val di Susa, non ci dovevano essere. In uno Stato normale le manifestazioni non finiscono con inseguimenti nei boschi e lacrimogeni lanciati a caso. In uno Stato normale si prevengono eventuali azioni minacciose senza aspettare di dover reprimere alla cieca; in un paese normale un poliziotto che fa il suo mestiere non è un eroe. È un poliziotto; un cittadino che protesta per i suoi diritti non è un eroe. È un cittadino. Evidentemente però radicalizzare certe contrapposizioni è funzionale al mantenimento di un certo status quo.
A Genova morì un ragazzo di vent'anni per un colpo di pistola sparato da un suo quasi coetaneo. Avevano divise diverse, probabilmente nessuno dei due aveva una chiara percezione di chi fosse il suo "nemico" in quel momento. Carlo Giuliani restò a terra, ucciso. Per mesi non si parlò d'altro, mentre nelle segrete stanze del potere, quelle sì lontane da bombe carta e lacrimogeni, si continuavano a perpetrare ingiustizie sociali d'ogni tipo.
Alberto Perino
Dieci anni dopo non abbiamo evidentemente imparato nulla. Perino, responsabile storico del movimento No Tav, parla di "assedio riuscito". Ingenuità o irresponsabilità? Non si sa. 
Ciò che è chiaro è che in quella valle, tra manifestanti, poliziotti, giornalisti e demagoghi, c'era un'assenza che faceva più rumore di una frana: quella della politica, ossia quell'entità chiamata a mediare tra interessi dissonanti e a proporre una sintesi condivisa. Non una risposta in divisa. Antisommossa e abbandonata a sè stessa.

sabato 2 luglio 2011

Leadershippati.

Per tanti anni si è sentito parlare di personalizzazione della politica, ossia di quel processo che fa sì che ci si identifichi coi leader dei singoli partiti senza curarsi troppo dello schieramento in sè. L'Italia del dopo Tangentopoli ha vissuto sull'eterno referendum tra favorevoli e contrari a Silvio Berlusconi. Il suo ingresso in politica prometteva di cambiare la storia del nostro paese, ma il risultato finale è stato decisamente misero: una classe dirigente sempre più corrotta, professionisti delle poltrone ben ancorati al proprio posto, meritocrazia azzerata e cooptazioni mirate. Il tutto sulla pelle di un popolo la cui sovranità costituzionale suonava sinistramente beffarda di fronte a cotanta arroganza. Formalmente sovrani, sostanzialmente sudditi, i cittadini hanno ultimamente manifestato il loro sdegno per questo modo curioso di intendere gli affari pubblici. Sia chiaro che le colpe di tale deriva sono da estendere all'intera classe parlamentare che ha contraddistinto la recente storia repubblicana. Una parola straniera ha preso piede nel linguaggio politico italiano, stroncando sul nascere le plurime e legittime riflessioni popolari: leadership. Parola ripetuta come un mantra obbligatorio dalle forze in gioco, più preoccupate di trovare un simbolo visivo che una più urgente sintesi concettuale. Così tutti hanno aspettato il demiurgo, il principe machiavellico pronto a risolvere i molteplici problemi all'orizzonte, un qualcuno che fosse capace di trascinare le folle. 

Si è arrivati così alla sovraesposizione dei leader, dalle cui dichiarazioni si giocava il destino di tutti. Leader o meglio padroni fintamente democratici, legittimati da una legge elettorale sconcertante a nominare i rappresentanti di 60 milioni di cittadini. 
Nel PdL si sente spesso ripetere la formula "leadership indiscussa", ossia la perfetta aberrazione della dialettica politica, il completo svuotamento dell'essenza democratica. Dall'altra parte invece la discussione è stata ben più accesa, ma ha per lo più riguardato lotte di potere interne e non un reale scontro su visioni diverse.
Sto leggendo un libro molto interessante di Antonio Vitullo, filosofico esperto di marketing , che distrugge il concetto di leadership. Il titolo è fortemente simbolico: "Leadershit". L'idea di fondo è quella di rottamare la mistica del capo che indica la via ai propri seguaci per cambiarla con una più razionale presa di coscienza collettiva che renda più orizzontale l'intera società. "C'è tanto oggi sotto i nostri occhi. È importante riuscire ad andare oltre le solite parole. Leader, leadership, modelli per organizzare e farsi organizzare dal mondo, retoriche e mitologie che ci avvolgono come un velo sottile a confondere e coprire altri punti di vista sulla realtà".
In un mondo in cui diventa sempre più facile acquisire conoscenze, l'idea weberiana del potere carismatico appare sempre più anacronistica. È finito il tempo dei plebisciti e delle investiture. Meglio investire su se stessi e smettere l'abito da "fan". È ora di pensare con la propria testa, di cercare nuove strade, senza farsi etichettare in via pregiudiziale.
Questa sarebbe l'alba di una vera res publica. 

venerdì 1 luglio 2011

Censure in vista.





Come sapete il 6 luglio l’AgCom voterà una delibera con cui si arrogherà il potere di oscurare siti internet stranieri e di rimuovere contenuti da quelli italiani, in modo arbitrario e senza il vaglio del giudice.
Cosa si può fare?
  • Andare alla pagina di Agorà Digitale in cui sono raccolti tutti i link, le iniziative e le proposte dei cittadini;
  • Firmare e diffondere la petizione sul sito di Avaaz.
  • Partecipare e invitare tutti i tuoi amici a “La notte della rete", dal 5 luglio sera: quattro ore no-stop in cui si alterneranno cittadini e associazioni in difesa del web, politici, giornalisti, cantanti, esperti.
  • Partecipare a una delle manifestazioni che si stanno a preparando a Roma e indiverse città.
Se sei un blogger infine scrivi un post, usando il logo sopra e riportando i link

(Ripreso da altri blog della rete)

mercoledì 29 giugno 2011

Morire un giorno a Roma.

Alberto Bonanni
Alberto Bonanni era un musicista. Aveva 29 anni. Sabato era andato a sentire un po' di musica dal vivo in un  locale del rione Monti a Roma. All' uscita viene apostrofato da un abitante della zona, un signore poco tollerante riguardo alle emissioni sonore del pub. Pochi minuti dopo Alberto è a terra, in un lago di sangue, oggetto di una violenza che verrà rubricata come "futili motivi", ma che in realtà trova origine da cause davvero spaventose. Chi lo ha colpito in quella strada non aveva una reale motivazione, forse neanche quella tanto citata sui giornali del "segnare il territorio".
Chi ha ucciso questo ragazzo non aveva di meglio da fare in quel momento. Questa è la futile e tragica verità, di fronte alla quale adesso piangiamo. Non serve strumentalizzare una fazione politica per una poco riuscita operazione sicurezza. Non serve a niente adesso lanciare accuse o ricordare quello che veniva promesso in campagna elettorale. Però abbiamo il dovere di capire cosa spinge un ragazzo a scatenare una rissa, a risolvere i conti o quello che è, colpendo l'altra persona, simulandone l'eliminazione fisica o addirittura compiendola. Di tutte le dichiarazioni stereotipate e idiote che sono seguite a questo episodio, una sola, credo, sia andata nella direzione giusta; l'ha fatta Zingaretti, presidente della Provincia di Roma, parlando della "necessità di mettere in atto una controffensiva culturale e sociale". Esatto, questo è il problema vero.
Tempo fa in un locale notturno, un ragazzo evidentemente su di giri mi stava per "menare". Alla mia richiesta di spiegazioni, si è ulteriormente agitato. Poi si è calmato, dicendomi che si scusava: "Ahò fratè, sto fatto. Devo mettere le mani addosso a qualcuno!". 
Mi ha fatto pena, perché nei suoi occhi c'era il vuoto di chi sapeva che non c'era niente di meglio, niente di più emozionante da fare in quella sera. Il giorno dopo avrebbe raccontato agli amici della sua bravata, accompagnando la sua descrizione di cruda virilità con gesti già visti, espressioni già sentite. Banali. Vuote. Quando si parla di quei giovani che si sono ribellati al sistema politico attuale e all'idea di una politica delegata e lontana, non bisogna dimenticarsi che c'è ancora una periferia sociale sempre più estesa, rassegnata, molto propensa a tirare un cazzotto e poco a fermarsi a pensare. Senza capire che sta facendosi più male di quanto riesca a causarne. Per questo serve una politica che accolga, senza strumentalizzazioni; che ascolti, senza urlare alla luna.
E anche che si guardi un po' più intorno. Scendendo da un'auto blu e facendosi due passi in giro. Questo sarebbe "stare sul territorio". Non alzare la saracinesca di una sterile sede di partito.
Quanto a te, Alberto, riposa in pace. Magari da un'altra parte sarà tutt' altra musica. 

domenica 26 giugno 2011

Pino Maniaci, un giornalista scomodo.

Pino Maniaci a Telejato
Come ho detto qualche giorno fa questo blog si propone di essere un laboratorio per elaborare una visione del futuro positiva e propositiva. Per guardare avanti bisogna anche sapere cosa ci si lascia indietro, perché come diceva Ippolito "chi conosce il passato è padrone del futuro". Ci sono situazioni che non conosciamo, che non abbiamo vissuto o di cui abbiamo solo sentito parlare. Qualche giorno fa, una ragazza di Trapani mi ha parlato di Pino Maniaci, un giornalista non riconosciuto dall'Ordine,  proprietario della coraggiosa Telejato,  piccola rete siciliana che combatte mediaticamente la mafia facendo nomi e cognomi in terre dove troppo spesso ha regnato l'omertà.
Nel suo sguardo c'è una fierezza risorgimentale e le sue parole sono pietre per i moderni latifondisti mafiosi. 
Quella di Pino è una storia paradossale, un tentativo di imbavagliare e far tacere una terra che ha un sacrosanto bisogno di urlare. Lui, giornalista di denuncia, viene denunciato. Per cavilli. Dai suoi "colleghi".
Dopo aver pubblicato "Il coraggio di scrivere la verità" di Brecht, mi sembra giusto parlare di chi cerca questa benedetta verità ogni giorno in una piccola tv privata, rischiando la vita e inaspettatamente anche il lavoro.
Non voglio però rubare spazio alle parole di Maria Grazia, la ragazza che mi ha parlato di lui e che lo descrive splendidamente.



Pino Maniaci
Leggendo le parole di Brecht mi viene in mente un esempio lampante di quell'uomo impalpabile e surreale che egli descrive. Si chiama Pino Maniaci ed io ho avuto la fortuna di conoscerlo.
Un uomo che ha come unico obiettivo l'educazione. L'educazione a una cultura antimafiosa, mosca bianca nella Partinico di ieri, germoglio vigoroso nella Partinico di oggi.
Pino, così si fa chiamare da tutti, grandi e piccoli, potenti e non, è il direttore di Telejato. Conduce un telegiornale con una mission ben precisa: la derisione costante e l'irriverenza totale nei confronti della mafia. Pino lotta in prima linea con la sua telecamera, pronto a riprendere le immagini degli arresti dei potenti, quelle immagini che vediamo nei tg nazionali, cedendole a costo zero e arricchendosi di gioia ogni qual volta un potere venga sventrato.
Ed è questa gioia che gli dà la forza di continuare a lottare. Inutile dire che abbia ricevuto fiumi di minacce, subito aggressioni fisiche e visto qualche auto bruciare, ma questo è il prezzo che devi pagare se vuoi davvero lottare contro i potenti. La sua storia è il prosieguo di una storia conosciuta in tutta Italia: quella dei cento passi. E se non vi fosse bastata la descrizione fatta finora, aggiungo che Pino Maniaci ha dovuto subire la denuncia di esercizio abusivo della professione, perchè non iscritto all'Ordine dei giornalisti.
Come se gli abusivi non fossero i vari Fede, Vespa e Minzolini in questo povero giornalismo italiano."Dispiacere ai possidenti significa rinunciare al possesso". Lui l'ha fatto. 


"Siamo tutti Pino Maniaci", cantilenano i suoi sostenitori.
Chapeau.

                                                                                                              Maria Grazia Culcasi

venerdì 24 giugno 2011

Il coraggio di essere giornalisti e non megafoni.

Walter Tobagi
È fissato nelle Sacre Scritture il concetto che la verità ci renderà liberi. Ha aggiunto Voltaire che "ai vivi si devono i riguardi, ai morti soltanto la verità".
Ho pensato di dedicare il post di oggi a quei giornalisti che hanno pagato con la vita per aver cercato di scoprire cosa stava dietro al buio. Le parole che seguono sono per loro, esploratori sfortunati di una Terra promessa, spostata costantemente da forze oscure.
E sono anche dedicate a Pierpaolo Faggiano, giornalista precario che si è tolto la vita pochi giorni fa non sopportando la mancanza di uno stabile riconoscimento al suo lavoro.
Pierpaolo Faggiano
L'Italia è piena di giornalisti servi, cani di compagnia del potere. Anche a loro, sperando in una repentina presa di coscienza, va il mio pensiero. Un proverbio arabo dice: "Onesto è colui che cambia il proprio pensiero per accordarlo alla verità. Disonesto è colui che cambia la verità per accordarla al proprio pensiero". Chissà che leggendo le frasi di Brecht si possano ravvedere.



Il coraggio di scrivere la verità.


Bertolt Brecht
Sembra cosa ovvia che colui che scrive scriva la verità, vale a dire che non la soffochi o la taccia e non dica cose non vere. Che non si pieghi dinanzi ai potenti e non inganni i deboli. Certo, è assai difficile non piegarsi dinanzi ai potenti ed è assai vantaggioso ingannare i deboli. Dispiacere ai possidenti significa rinunciare al possesso. Rinunciare ad essere pagati per il lavoro prestato può voler dire rinunciare al lavoro e rifiutare la fama presso i potenti significa spesso rinunciare a ogni fama. Per farlo, ci vuole coraggio.
Le epoche di massima oppressione sono quasi sempre epoche in cui si discorre molto di cose grandi ed elevate. In epoche simili ci vuole coraggio per parlare di cose basse e meschine come il vitto e l'alloggio dei lavoratori, mentre tutt'intorno si va strepitando che ciò che più conta è lo spirito di sacrificio.
Quando i contadini vengono ricoperti di onori, è prova di coraggio parlare di macchine e foraggi a buon prezzo, capaci di agevolare quel loro lavoro tanto onorato. Quando tutte le radio vanno gridando che un uomo privo di sapere e d'istruzione è meglio di un uomo istruito, è prova di coraggio domandare: meglio per chi? Quando si discorre di razze superiori e inferiori, è prova di coraggio chiedere se non siano la fame e l'ignoranza e la guerra a produrre certe deformità. Così pure ci vuole coraggio per dire la verità sul conto di se stesso, di se stesso, il vinto. Molti di coloro che vengono perseguitati perdono la capacità di riconoscere i propri difetti. La persecuzione appare loro, come la più grave delle ingiustizie. I persecutori, dato che perseguitano, sono i malvagi, mentre loro, i perseguitati, vengono perseguitati per la loro bontà. Ma questa bontà è stata battuta, vinta, inceppata e doveva quindi trattarsi di una bontà debole; di una bontà difettosa, inconsistente, su cui non si poteva fare affidamento; giacché non è lecito ammettere che alla bontà sia congenita la debolezza così come si ammette che la pioggia debba per definizione essere bagnata. Per dire che i buoni sono stati vinti non perché erano buoni, ma perché erano deboli, ci vuole coraggio. Naturalmente la verità bisogna scriverla in lotta contro la menzogna e non si può trattare di una verità generica, elevata, ambigua. Di tale specie, cioè generica, elevata, ambigua, è proprio la menzogna. Se a proposito di qualcuno si dice che ha detto la verità, vuol dire che prima di lui alcuni o parecchi o uno solo hanno detto qualcos'altro, una menzogna o cose generiche; lui invece ha detto la verità, cioè qualcosa di pratico, di concreto, di irrefutabile, proprio quella cosa di cui si trattava.
Poco coraggio invece ci vuole per lamentarsi della malvagità del mondo e del trionfo della brutalità in genere e per agitare la minaccia che lo spirito finirà col trionfare, quando chi scrive si trovi in una parte del mondo in cui ciò è ancora permesso. Molti assumono l'atteggiamento di uno che stia sotto il tiro dei cannoni, mentre sono semplicemente sotto il tiro dei binocoli da teatro. Vanno gridando le loro generiche rivendicazioni in un mondo amico della gente innocua. Chiedono genericamente una giustizia per la quale non hanno mai mosso un dito e chiedono genericamente la libertà, quella di ottenere una parte del bottino che già da gran tempo è stato spartito con loro. Considerano verità solo ciò che ha un bel suono. Se la verità ha a che fare con cifre, con fatti, se è cosa arida, che per essere trovata richiede sforzo e studio, allora non è una verità che faccia per loro, non ha nulla che li possa inebriare. Solo esteriormente hanno l'atteggiamento di chi dice la verità. Con loro il guaio è che non conoscono la verità.                        
                                                                                     (B. Brecht)

giovedì 23 giugno 2011

Vi regalo Vasco. Regalate proposte.

Cari lettori di Politictac, grazie per il vostro affetto quotidiano. Le statistiche dimostrano che siete sempre di più a visitare questo blog. Spero che il mio progetto di creare un' oasi di informazione e analisi politica indipendente continui a essere di vostro gradimento. Intanto penso che vi siate meritati un premio. Allo stesso tempo, voglio che ve lo meritiate sul campo. Mi spiego meglio: metterò a disposizione un biglietto del prossimo concerto di Vasco Rossi dell' 1 Luglio allo stadio Olimpico di Roma per voi.
Le regole sono semplici; dovrete inviarmi un testo di non più di 2000 battute nel quale esponete la vostra proposta più urgente di riforma del sistema politico attuale. La più brillante sarà premiata col biglietto.
La mail è: politictac@hotmail.it.
Non dimenticate ovviamente di lasciare un recapito telefonico al quale essere contattati. 
Questa sarà la prima di una serie di iniziative volte a far diventare questo blog un laboratorio per una nuova idea di politica. Dai fatti recenti possiamo constatare la latitanza di un serio progetto di radicale riforma della rappresentanza parlamentare di questo paese. Urgono proposte, non solo proteste.
Non basta essere indignati, serve essere impegnati. Io lancio quindi la palla nelle vostre mani da buon playmaker (del resto, ho una carriera alle spalle in tal senso...). Lascio la parola a voi. Avete una settimana di tempo: il bando chiude alle 20 di giovedì 30 giugno. In questi giorni continuate a seguire il blog. Ho tante cose da raccontarvi. 
A presto. Andate al massimo. Andrete a gonfie vele.

Il rinfrescatore

martedì 21 giugno 2011

Corpi e anticorpi. Una generazione rigenerata.

Umberto Eco.
"La rivolta dei giovani è figlia dell' universo dell' industria culturale: salvo che l'uso che i giovani hanno fatto dei prodotti dell'industria culturale non è quello previsto dai profeti, concilianti o surcigliosi (accigliati ndr),  dell'industria medesima. Paradossalmente chi contesta il Sistema è figlio del Sistema che ha prodotto i propri anticorpi". Parole scritte da Umberto Eco nel 1968,  che hanno però un sapore particolarmente attuale se guardiamo alla nostra fase storica e ai processi che la stanno attraversando.
Ha suscitato stupore il fatto che molti giovani partecipassero attivamente a una riconsiderazione della politica. Ormai da più parti si continuava a parlare di generazione perduta, di bamboccioni, di animali domestici incapaci di battersi per un sensibile cambiamento della situazione. Con una certa superficialità di giudizio si credeva che i modelli proposti dalla televisione consumista ed esteticamente elitaria rappresentassero quasi un'intera generazione. Non era così. Mentre bellocci e bellocce sfoggiavano il loro inconsistente narcisismo, adulati da teenager incollate al buco della serratura, cresceva una generazione che non aveva nessuna intenzione di inginocchiarsi a sbirciare. Non per questo cercava, come in altre epoche, di prendere a calci la porta. L' intenzione era semmai l'opposta: lasciare gli 'inconsapevoli' nella propria gabbia mediatica e riaprirsi al mondo attraverso strumenti vecchi e nuovi, dalle piazze a un uso funzionale della rete.
Così è rinata la speranza, colorata di arancione, di viola, ma soprattutto caratterizzata da una dialettica tra persone non vincolate a stereotipi partitici, legate solo dal desiderio di impegnarsi e di indignarsi contro una perenne degenerazione civile.
Questa generazione ha sentito così forte il bisogno di partecipare in prima persona perché si è resa conto della totale assenza di intermediari politici e anagrafici.
La vera generazione perduta è allora forse quella dei 40enni, quelli che nel pieno del loro vigore si sono fatti mettere fumo negli occhi da una gerontocrazia gelatinosa e tentacolare. Se l'Italia non è riuscita ad attuare una vera discontinuità con la Prima Repubblica la colpa è prevalentemente loro, pavidi burattini cresciuti all'ombra di vetusti potentati. Figli di una classe dirigente che concepiva il potere come spartizione di cariche e poltrone, ne hanno portata avanti un'altra dedita al misero compromesso e alla lottizzazione spacciandole per vocazione riformista e politiche di larga intesa.
Non so se i giovani sapranno far sentire la loro voce costantemente. È nella loro natura essere discontinui,  che si tratti di politica, sport o studio. Quello che contava però adesso era fornire una diversa accezione di discontinuità, da intendersi come rottura con schemi retrogradi di certi ipocriti benpensanti.
In quello hanno già vinto una battaglia generazionale con chi li ha preceduti.  E che presto saranno costretti a inseguirli, sempre che ne abbiano le gambe e il cuore per farlo.

lunedì 20 giugno 2011

Pontida val bene un po' di grida.

Tutta fiction. Sul pratone di Pontida si consuma l'ennesima farsa leghista, la solita rimpatriata tra vecchi compagni di lotta. Una volta sognavano di spostare una nazione, adesso si ritrovano a invocare lo spostamento di un paio di ministeri senza portafoglio. La base, accorsa in massa al raduno, mal sopporta la strategia attendista dei suoi dirigenti. Il discorso di Bossi viene interrotto più volte dalle gridate richieste di secessione del pubblico. In quella richiesta c'è un qualcosa di nostalgico; c'è la voglia di ritrovare quella Lega degli inizi che prometteva di scardinare il potere e non di diventarne ingranaggio manovrato. Non è solo una richiesta geografica, ma soprattutto un desiderio di affrancarsi dal berlusconismo, una secessione da chi ha usato il Parlamento per farsi leggi su misura usando i voti leghisti.
Le risposte dal palco però sono tiepide e non scaldano i cuori dei militanti che vogliono azione, senza giri di parole né giochi di palazzo. Chiedono concretezza ma l'unica cosa tangibile che ottengono è la comica targa del prossimo ministero a Monza, feticcio di un potere che non esiste. Nel mostrare quel simbolo alla loro gente, Bossi e Calderoli non si accorgono di quanto la loro sbandierata purezza padana sia contaminata dalla vituperata Roma ladrona. Raccolgono firme per attuare un decentramento anticostituzionale ma soprattutto poco importante per gli stessi padani, a cui poco interessa avere il ministero come vicino di casa se all'interno si continuano a fare gli interessi di altri.
Le camicie verdi applaudono il loro leader malconcio consapevoli di rappresentare il suo bastone della vecchiaia, grati per le lotte intraprese e scettici per l'incompiutezza effettiva di molte di esse. Il Senatùr parla a fatica, ma le sue parole risulterebbero di difficile comprensione anche se fossero lette da Ugo Pagliai.
Minaccia di non appoggiare più Berlusconi se non verrà data un'accelerata alle riforme richieste dal suo partito. Tanta demagogia mal pronunciata; l'anno scorso il senatore Stradiotto del Pd presentò un emendamento alla manovra finanziaria chiedendo di circoscrivere a urgenze particolari l'uso delle auto blu. La Lega votò contro, anche se dal palco di Pontida il suo leader grida contro di esse.
Insulta i giornalisti "coglioni" e "stronzi", sproloquia sui cicli storici sbagliando di una ventina d'anni la fine della Destra storica. Ostenta preoccupazione per le masse di profughi sbarcati dalla Libia, in verità 14000 in tutto, una quota del tutto gestibile. Avvisa Tremonti, gesticola, bofonchia. L'ultimatum a Berlusconi è poco credibile e la gente, che acclama solo Maroni, lo sa.
Ricorda quelle innamorate disposte a perdonare sempre l'amato traditore. La primordiale intransigenza leghista è molto sbiadita nei suoi dirigenti. Mettere il ministero vicino a casa non significa voler stare in mezzo alla propria gente, ma forse solo stare più comodi. È dura fare la rivoluzione dalla poltrona. A Monza o a Roma ha poca importanza.

venerdì 17 giugno 2011

La cultura è in marcia.

Su Repubblica di oggi Saviano parla di un popolo in movimento, di gente che si è messa in marcia senza un percorso definito condividendo però la volontà di unirsi per cambiare il corso delle cose. Ha ragione, ma ci sono anche altri fenomeni più statici che testimoniano quanto sia forte l'esigenza di cambiamento. Ne voglio riportare uno. Ieri sera ho partecipato a una rassegna all'Auditorium di Roma chiamata "Le parole della politica", iniziativa indetta da Repubblica e Laterza per riflettere su alcuni termini abusati dalla società e svuotati spesso di significato. La sala era stracolma e mai come stavolta ho avuto la percezione di come i cittadini non sentano solo il desiderio di muoversi, ma anche quello di fermarsi a riflettere sullo stupro delle parole perpetrato da anni. Le magistrali lezioni ( in questo caso vale la pena di invertire i termini) sono state tenute da Gustavo Zagrebelsky e Barbara Spinelli. Hanno parlato rispettivamente di 'libertà' e di 'etica pubblica'. Giovani e anziani hanno ascoltato in un silenzio tombale, assorti in una meravigliosa liturgia laica. Fermi sulle poltrone, hanno fatto altri passi verso una piena presa di coscienza.
Gustavo Zagrebelsky, costituzionalista.
Si sono sentiti chiamare in causa quando Zagrebelsky ha citato Rousseau e la sua celebre frase "siamo tutti liberi ma in catene". "Libertà è autocondotta più autonomia- ha aggiunto l'oratore- un poter agire conseguente al poter volere", affrontando poi il tema della servitù volontaria attraverso quattro epocali nemici della libertà: conformismo, opportunismo, grettezza e debolezza.
I 'liberi servi' riuniti da Ferrara dieci giorni fa si saranno sentiti fischiare le orecchie per le citazioni di Mill, Dostoevskij e Tocqueville. Loro sono gli estremi paladini del "Popolo della libertà", totalmente inconsapevoli di quanto la libertà sia insidiata dall'omologazione delle anime.
Come ha detto la Spinelli, il popolo (tutto, non solo quello che si autonomina libero) è il vero depositario del potere. Deve diffidare, questo popolo, da chi gli chiede di amare la patria perché ad essa, come insegnato da Kant, si deve rispetto, non amore. 
Barbara Spinelli, editorialista.
Chissà poi se il premier, sempre dichiaratosi amante della cultura francese forse confondendo il Moulin Rouge con Maupassant, avrà sentito riecheggiare le parole del filosofo Ricoeur, "l'uomo è diverso dalle bestie, perché è chiamato a rendere conto di ciò che fa", preludio di una meravigliosa comparazione etimologica sui termini 'comunità' e 'immunità', giocata sulla comune radice 'munus', ossia dovere, onere.
La comunità infatti presuppone qualcosa che viene dato con un onere, implica obblighi gli uni verso gli altri; l'immunità richiama all'opposto la volontà di chiamarsi fuori dalla società, l'impossibilità di essere imputabile di qualsiasi dovere verso gli altri. Una posizione mal conciliabile con l'articolo 54 della nostra Costituzione che parla di speciali doveri di disciplina e onore per chi ricopre funzioni pubbliche, ma anche un'ipotesi spazzata via da 25 milioni di voti pochi giorni fa.
Nel discorso sull' etica pubblica, la Spinelli non ha lesinato accuse alla Chiesa, colpevole di assolutizzare alcuni valori, specie sul testamento biologico, relativizzando di conseguenza i restanti e ponendosi come inconscia sentinella di quell' immunitas sostanziale portata avanti da questo governo.
"Essere super partes significa apprendere una morale pubblica che oltrepassa l'interesse di tutti noi, laddove la parola 'interesse' non ha l'accezione sporca che le attribuiamo oggi ma il suo significato originario: scoperta che c'è qualcosa tra l'io e il tu".
Ascoltate queste parole finali, la gente si è alzata e si è rimessa in marcia verso casa. O forse verso la consapevolezza che qualcosa di meglio rispetto a ciò che ha visto finora è davvero dietro l'angolo. Occorrerà molto impegno, etimologicamente 'dare qualcosa a qualcuno'. Guarda caso, ricorda tanto la parola comunità.

giovedì 16 giugno 2011

Lettera di un lettore.

Stracquadanio
Secondo l'eminente Stracquadanio la sinistra dilaga sul web perché il suo corpo elettorale è formato da persone senza lavoro o che  lavorando poco e male possono permettersi di passare le ore in rete. Una tesi sorprendente quella del deputato del PdL già conosciuto per le pagelle somministrate ai compagni di governo e per essere il barzellettiere prediletto di Berlusconi. Pensandoci bene, non stupisce così tanto sentire frasi così agghiaccianti da una persona che ebbe a dire che le donne facevano bene a usare il proprio corpo per fare carriera politica. C'è prostituzione fisica e prostituzione mentale. Oppure c'è il resto del paese. Al momento la maggioranza di esso. Ho ricevuto ieri una lettera di un ragazzo, Mattia Gangi. Ha scritto per diversi giornali, sta finendo il percorso universitario nei tempi giusti, ha viaggiato e come altri 28 milioni di persone è andato a votare al referendum. Studia i processi di comunicazione sul web e la sua lettera spiega, con meno superficialità rispetto allo "stakanovista" deputato del Pdl, le ragioni della mobilitazione tecnologica cui stiamo assistendo. Vi lascio alla lettura.





Il mio televisore 32'', comprato con soddisfazione durante un impeto di consumismo natalizio, dorme, spento, deturpato delle sue funzioni primarie. Colpevolmente non ho chiamato l'antennista, non ho collegato il digitale terrestre; da mesi il mio enorme telefunken ultra piatto, HDMI, tecnologia LED, mi guarda silenzioso, attivandosi solo quando pietoso inserisco la pennetta USB, o l'hard disk, per spararmi in modo criminale una quantità abnorme di film e serie Tv che allietano le mie serate solitarie, e le mie nottate in compagnia.  Tuttavia  il fatto stesso di non guardare la televisione non mi rende migliore dei tanti, troppi, milioni di italiani che lo fanno; né mi rende immune dalle vagonate di merda che ogni giorno siamo costretti a sorbire attraverso la congiura mediatica cui siamo sottoposti.

Un televisore spento.
Perché passo la prima parte della mia giornata a leggere la rassegna stampa, leggo i quotidiani online e guardo i programmi Rai attraverso la piattaforma digitale di Rai.tv. Tra l'altro sono un acceso sostenitore delle nuove tecnologie, e lo sarei stato anche cinquant’anni fa quando il tubo catodico conquistava la vita dei miei concittadini. Avrei speso la stessa quantità di soldi rapportati al cambio degli anni '50 per un enorme telefunken di prima generazione all'interno del quale guardare con stupore la realtà rappresentata, il mondo al di fuori della mia portata oculare. Vi dirò di più, allo stesso modo in cui mi sono comprato uno Smartphone ed abuso dei piaceri tattili del touch screen, negli '80 avrei comprato una macchina da scrivere digitale e nei '90 uno dei primi Mac Book con schermo in bianco e nero.

Domenica sono stato a votare per il referendum del 12 e 13 Giugno che ha segnato una vittoria schiacciante dei Sì. E ho votato 4 Sì. La politica ne ha parlato molto, il giornalismo televisivo invece è stato colto da un'irrefrenabile ondata di stitichezza informativa. Le home dei giornali online sono state invase di contenuti video, audio e di articoli che hanno rappresentato la vittoria referndaria come risposta della cittadinanza all'affarismo rapace della classe politica; i social network ed i blog – come questo – hanno smosso un'opinione pubblica narcotizzata dall'incubo anni '80 nel quale i dirigenti Rai e Mediaset l'hanno incatenata da vent'anni. Ora, non voglio certo dire che i nuovi mezzi di comunicazione siano la risposta per rivitalizzare una democrazia da sempre scricchiolante come la nostra, ma di certo qualcosa è cambiato nell'approccio alle tematiche politiche e prima di tutto sociali.

Qualcosa si è smosso nella palude del qualunquismo e dell'indifferenza tanto da portare soggetti storicamente impermeabili all'attivismo politico a mobilitarsi in prima persona, non solo come soggetto passivo ma come agente primario di una rivoluzione morbida che vede nel passaparola il suo punto focale. I balbettii indecifrabili della casta giornalistica che occupa militarmente le emittenti dimostrano la stessa impreparazione culturale di una classe politica che, o blatera idiozie senza senso ( PDL – Lega ), o cerca spasmodicamente di appropiarsi di un risultato di cui non è neanche lontamente responsabile ( PD ).  In altri paesi questi stessi signori stanno cercando di fiutare il vento che cambia adattandosi alle novità messe in moto dal Web, modificando la produzione dei contenuti e riadattando il loro linguaggio ad un elettorato sempre più attento e sempre meno coglione.

Persino il mio telefunken spento ed acceso a singhiozzi ha capito che qualcosa non quadra, e i suoi progettisti hanno inserito la funzione televisiva tra le altre, ad un livello di pari importanza. Premendo un paio di tasti sul telecomando il mio televisore diventa uno schermo per il computer, l'interfaccia della mia Wii e del mio lettore DVD ed infine un lettore di device esterni. Senza soffrire di crisi d'identità il brand che ha prodotto per una vita televisori, che per decine di anni hanno trasmesso in modo monodirezionale il mainstream della politica, ha deciso di cambiare prodotto producendo il medesimo elettrodomestico ( che fa tanto anni '70).

Quello che voglio dire è che, senza eccessi di entuasismo tecnologico, abbiamo la possibilità di cambiare e personalizzare la nostra dieta mediatica. L'evoluzione dei prodotti, chiaramente sfuggita di mano ai tecnocrati, permette spiragli insospettati di invulnerabilità di fronte all'eterodirezione del pensiero unico. Approfittiamone no? 

mercoledì 15 giugno 2011

Colpi bassi alla società.

Renato Brunetta rappresenta, anche sotto il piano iconico, la bassezza di questo governo. Lo ha dimostrato nelle sue arroganti apparizioni pubbliche, solitamente contraddistinte da atteggiamenti isterici e volgarità lessicali. Dice di essere un uomo dei fatti, ma i dati lo sconfessano: la promessa rivoluzione tecnologica della pubblica amministrazione non è mai arrivata e gli impiegati lavorano ancora con strumenti inadeguati alla modernità. Divenne celebre un suo attacco alla scarsa produttività lavorativa dei dipendenti statali, quei "fannulloni" che il ministro prometteva di licenziare, premiando invece i lavoratori più meritevoli. Niente di tutto questo è successo. Ieri un gruppo di precari della pubblica amministrazione ha cercato di rivolgergli delle domande riguardo alla propria drammatica situazione. Probabilmente si aspettavano di non ricevere risposte concrete, ma non potevano immaginare che il ministro li avrebbe additati di essere "l'Italia peggiore", ovviamente senza ascoltare le loro ragioni e fuggendo con l'auto blu. Questa è la sequenza ripresa dalle telecamere.


In quell'immagine del precario che si pone davanti alla macchina ministeriale c'è la perfetta rappresentazione della società italiana di oggi. C'è l'arroganza di un potere arroccato nella sua viltà, incapace di dare rispetto e risposte a chi si trova in difficoltà. C'è la noncuranza di un governo che non ha la capacità né di innovare, né di mantenere standard accettabili. Per questo fugge, rifugiandosi nelle proprie roccaforti, forse consapevole di essere più precario di quei lavoratori che non riesce neanche a guardare in faccia. Per un attimo in quella sequenza ho rivisto Piazza Tienanmen e lo studente cinese che si mette davanti al carro armato. Certo, qui il potere si limita a sparare idiozie, non avanza coi cingolati e al massimo sgattaiola con la sirena d'ordinanza. Qui il governo non reprime, ma deprime.
Non è quella che pensa Brunetta l'Italia peggiore;quella da lui vituperata è un'Italia che lavora, sfruttata, sottopagata e senza prospettive. Non chiede di faticare meno e avere di più. Chiede quello che le spetta e non vuole più aspettare. 
Se proprio ci tiene a sapere qual è l'Italia peggiore, si faccia invitare a cena dal suo presidente del Consiglio. Poi vada in uno di quei bagni dove le invitate si facevano le foto souvenir; in punta di piedi si guardi allo specchio. E in punta di piedi esca di scena. Ah, chiuda la porta, grazie.
Sa com'è, tira vento ultimamente.

martedì 14 giugno 2011

Lunedì Sì fa la rivoluzione. Sì Sì Sì.

13 giugno: matrimonio con la democrazia
Per il terzo lunedì nel giro di un mese, l'Italia che ha smesso di ridere alle barzellette del suo non più ineffabile premier sorride di fronte ai risultati delle urne. Il paese della risatina di circostanza, accondiscendente davanti all'occupazione privatista della sfera pubblica, torna a guardare col sorriso sulle labbra un futuro che non sembra più una prospettiva utopica.
C'è chi ha ancora il coraggio di dire che questo referendum non deve avere una valutazione politica. Mi scappa da ridere: come si può non considerare il voto di ventotto milioni di italiani, quasi unanimi nel cancellare quattro pilastri legislativi del governo in carica, una chiara e luminosa risposta politica ? L'istituto referendario è l'atto politico per eccellenza perché chiama in causa, senza intermediazioni partitiche, i cittadini, interrogandoli sulla bontà o meno della condotta dei loro rappresentanti. La sovranità popolare viene in queste occasioni esercitata nel modo più chiaro possibile: sì o no, giusto o sbagliato. Una massa di persone ha scritto su quattro diverse schede che questo governo ha sbagliato; attraverso una partecipazione corposa ha avvertito parecchi cartonati immobili travestiti da politici che c'è una società in evoluzione, ormai disposta a informarsi per vie tortuose pur di avere coscienza e conoscenza di ciò che le succede intorno.
Hanno detto in molti che questo raggiungimento del quorum è frutto della definitiva affermazione della rete sulla televisione per quanto riguarda la comunicazione politica e i suoi derivati. Concordo solo in parte. È vero che la mobilitazione su internet ha aggregato un consenso insperato ma non bisogna dimenticare che la silenziosa marcia di uscita dal berlusconismo è cominciata dalla televisione, quando dieci milioni di persone hanno scelto di guardare Vieni via con me anziché inocularsi l'ennesima dose di Grande fratello. Era, guarda caso, sempre lunedì. Così com' era lunedì quando Gad Lerner nel corso della sua trasmissione rimbrottava aspramente l'intervento telefonico di Berlusconi, come al solito unilaterale e offensivo. Per non parlare di Annozero, talmente seguito che il premier gli ha attribuito responsabilità per la batosta elettorale. Non conta il mezzo, contano i contenuti; il segnale più positivo è semmai il fatto che di fronte ad un oscurantismo o a un deficit di credibilità della televisione, la gente riesca a trovare strumenti informativi alternativi e coinvolge i più restii a partecipare a questo processo di rinnovata educazione civica.
Il sì urlato in piazza.
Ho sentito Formigoni sostenere una tesi interessante, ossia che gli italiani avrebbero votato contro il governo qualsiasi   domanda inserita nei referendum perché la priorità popolare era mandare a casa Berlusconi. Forse sottovaluta un po' l'alta qualità dei quesiti proposti, ma probabilmente centra un problema cruciale: il paese non vuole più Silvio Berlusconi come capo del governo. In un certo senso è stato un referendum ad personam, soprattutto perché la gente che si spende quotidianamente per i temi pubblici non tollera più un leader teocratico ed egoista, mai in grado di scendere da un piedistallo sempre più simile al trespolo di un pappagallo in gabbia. Un primo ministro che ogni lunedì deve presentarsi in tribunale a rispondere di svariate accuse. Forse davvero le persone avrebbero votato qualsiasi cosa contro di lui, ma non lo avrebbero fatto per semplice presa di posizione: qualsiasi quesito posto dal popolo non può trovare risposta da chi lo governa, un uomo troppo coinvolto nel risolvere i propri problemi per occuparsi dei problemi di tanti. Meglio darsele da soli allora certe risposte. Sembra Marzullo, ma è democrazia.   

lunedì 13 giugno 2011

Quattro matrimoni. E una speranza.

Siamo a poche ore dai risultati del referendum. Il tanto atteso quorum si giocherà sul filo di lana e già questo è un successo, considerando i tentativi oscurantisti delle televisioni generaliste. Il referendum è un esercizio di democrazia diretta, un nobile atto di coscienza. Attraverso una semplice risposta, il cittadino può incidere senza ulteriori intermediari sul processo legislativo e dare un colpo di vernice a ciò che reputa sbagliato. Quello che è accaduto nelle ultime due settimane è sinceramente commovente; i vuoti di informazione sono stati colmati da una campagna capillare partita dal basso, arrivata ovunque con ogni mezzo. Dopo l'elettroshock delle amministrative, tanti si sono sentiti parte di un'onda lunga, di un moto in grado di scuotere un potere che ha sempre meno attinenza con la base.
C'era un'atmosfera particolare nei dintorni dei seggi. Sguardi complici, teste alte e una silenziosa solidarietà, frutto della consapevolezza di sentirsi dalla parte giusta in questa guerra civile tra coscienti e indifferenti. Una battaglia di democrazia pura, combattuta coltivando il sogno di essere così tanti da cambiare scenografia e sceneggiatura, diventando gli attori protagonisti di un film ancora inedito. Ognuno ha trovato la sua trincea nelle cabine elettorali, uno splendido luogo per fare la rivoluzione, armati semplicemente di matita e schede colorate.
C'è qualcosa di sacro nel rispondere ai quesiti referendari. Di fronte a quelle domande, i seggi si trasformano in altari; magicamente milioni di cittadini vanno a sposarsi con la democrazia. E stavolta c'erano da dire quattro fatidici sì per celebrare quattro matrimoni. E un funerale. Sapete già di chi. Magari sarà davvero un gran bel film. Se qualcuno non ha ancora partecipato, veda di sbrigarsi. A meno che non voglia fare la comparsa in una pellicola soporifera e ripetitiva.