mercoledì 29 giugno 2011

Morire un giorno a Roma.

Alberto Bonanni
Alberto Bonanni era un musicista. Aveva 29 anni. Sabato era andato a sentire un po' di musica dal vivo in un  locale del rione Monti a Roma. All' uscita viene apostrofato da un abitante della zona, un signore poco tollerante riguardo alle emissioni sonore del pub. Pochi minuti dopo Alberto è a terra, in un lago di sangue, oggetto di una violenza che verrà rubricata come "futili motivi", ma che in realtà trova origine da cause davvero spaventose. Chi lo ha colpito in quella strada non aveva una reale motivazione, forse neanche quella tanto citata sui giornali del "segnare il territorio".
Chi ha ucciso questo ragazzo non aveva di meglio da fare in quel momento. Questa è la futile e tragica verità, di fronte alla quale adesso piangiamo. Non serve strumentalizzare una fazione politica per una poco riuscita operazione sicurezza. Non serve a niente adesso lanciare accuse o ricordare quello che veniva promesso in campagna elettorale. Però abbiamo il dovere di capire cosa spinge un ragazzo a scatenare una rissa, a risolvere i conti o quello che è, colpendo l'altra persona, simulandone l'eliminazione fisica o addirittura compiendola. Di tutte le dichiarazioni stereotipate e idiote che sono seguite a questo episodio, una sola, credo, sia andata nella direzione giusta; l'ha fatta Zingaretti, presidente della Provincia di Roma, parlando della "necessità di mettere in atto una controffensiva culturale e sociale". Esatto, questo è il problema vero.
Tempo fa in un locale notturno, un ragazzo evidentemente su di giri mi stava per "menare". Alla mia richiesta di spiegazioni, si è ulteriormente agitato. Poi si è calmato, dicendomi che si scusava: "Ahò fratè, sto fatto. Devo mettere le mani addosso a qualcuno!". 
Mi ha fatto pena, perché nei suoi occhi c'era il vuoto di chi sapeva che non c'era niente di meglio, niente di più emozionante da fare in quella sera. Il giorno dopo avrebbe raccontato agli amici della sua bravata, accompagnando la sua descrizione di cruda virilità con gesti già visti, espressioni già sentite. Banali. Vuote. Quando si parla di quei giovani che si sono ribellati al sistema politico attuale e all'idea di una politica delegata e lontana, non bisogna dimenticarsi che c'è ancora una periferia sociale sempre più estesa, rassegnata, molto propensa a tirare un cazzotto e poco a fermarsi a pensare. Senza capire che sta facendosi più male di quanto riesca a causarne. Per questo serve una politica che accolga, senza strumentalizzazioni; che ascolti, senza urlare alla luna.
E anche che si guardi un po' più intorno. Scendendo da un'auto blu e facendosi due passi in giro. Questo sarebbe "stare sul territorio". Non alzare la saracinesca di una sterile sede di partito.
Quanto a te, Alberto, riposa in pace. Magari da un'altra parte sarà tutt' altra musica. 

domenica 26 giugno 2011

Pino Maniaci, un giornalista scomodo.

Pino Maniaci a Telejato
Come ho detto qualche giorno fa questo blog si propone di essere un laboratorio per elaborare una visione del futuro positiva e propositiva. Per guardare avanti bisogna anche sapere cosa ci si lascia indietro, perché come diceva Ippolito "chi conosce il passato è padrone del futuro". Ci sono situazioni che non conosciamo, che non abbiamo vissuto o di cui abbiamo solo sentito parlare. Qualche giorno fa, una ragazza di Trapani mi ha parlato di Pino Maniaci, un giornalista non riconosciuto dall'Ordine,  proprietario della coraggiosa Telejato,  piccola rete siciliana che combatte mediaticamente la mafia facendo nomi e cognomi in terre dove troppo spesso ha regnato l'omertà.
Nel suo sguardo c'è una fierezza risorgimentale e le sue parole sono pietre per i moderni latifondisti mafiosi. 
Quella di Pino è una storia paradossale, un tentativo di imbavagliare e far tacere una terra che ha un sacrosanto bisogno di urlare. Lui, giornalista di denuncia, viene denunciato. Per cavilli. Dai suoi "colleghi".
Dopo aver pubblicato "Il coraggio di scrivere la verità" di Brecht, mi sembra giusto parlare di chi cerca questa benedetta verità ogni giorno in una piccola tv privata, rischiando la vita e inaspettatamente anche il lavoro.
Non voglio però rubare spazio alle parole di Maria Grazia, la ragazza che mi ha parlato di lui e che lo descrive splendidamente.



Pino Maniaci
Leggendo le parole di Brecht mi viene in mente un esempio lampante di quell'uomo impalpabile e surreale che egli descrive. Si chiama Pino Maniaci ed io ho avuto la fortuna di conoscerlo.
Un uomo che ha come unico obiettivo l'educazione. L'educazione a una cultura antimafiosa, mosca bianca nella Partinico di ieri, germoglio vigoroso nella Partinico di oggi.
Pino, così si fa chiamare da tutti, grandi e piccoli, potenti e non, è il direttore di Telejato. Conduce un telegiornale con una mission ben precisa: la derisione costante e l'irriverenza totale nei confronti della mafia. Pino lotta in prima linea con la sua telecamera, pronto a riprendere le immagini degli arresti dei potenti, quelle immagini che vediamo nei tg nazionali, cedendole a costo zero e arricchendosi di gioia ogni qual volta un potere venga sventrato.
Ed è questa gioia che gli dà la forza di continuare a lottare. Inutile dire che abbia ricevuto fiumi di minacce, subito aggressioni fisiche e visto qualche auto bruciare, ma questo è il prezzo che devi pagare se vuoi davvero lottare contro i potenti. La sua storia è il prosieguo di una storia conosciuta in tutta Italia: quella dei cento passi. E se non vi fosse bastata la descrizione fatta finora, aggiungo che Pino Maniaci ha dovuto subire la denuncia di esercizio abusivo della professione, perchè non iscritto all'Ordine dei giornalisti.
Come se gli abusivi non fossero i vari Fede, Vespa e Minzolini in questo povero giornalismo italiano."Dispiacere ai possidenti significa rinunciare al possesso". Lui l'ha fatto. 


"Siamo tutti Pino Maniaci", cantilenano i suoi sostenitori.
Chapeau.

                                                                                                              Maria Grazia Culcasi

venerdì 24 giugno 2011

Il coraggio di essere giornalisti e non megafoni.

Walter Tobagi
È fissato nelle Sacre Scritture il concetto che la verità ci renderà liberi. Ha aggiunto Voltaire che "ai vivi si devono i riguardi, ai morti soltanto la verità".
Ho pensato di dedicare il post di oggi a quei giornalisti che hanno pagato con la vita per aver cercato di scoprire cosa stava dietro al buio. Le parole che seguono sono per loro, esploratori sfortunati di una Terra promessa, spostata costantemente da forze oscure.
E sono anche dedicate a Pierpaolo Faggiano, giornalista precario che si è tolto la vita pochi giorni fa non sopportando la mancanza di uno stabile riconoscimento al suo lavoro.
Pierpaolo Faggiano
L'Italia è piena di giornalisti servi, cani di compagnia del potere. Anche a loro, sperando in una repentina presa di coscienza, va il mio pensiero. Un proverbio arabo dice: "Onesto è colui che cambia il proprio pensiero per accordarlo alla verità. Disonesto è colui che cambia la verità per accordarla al proprio pensiero". Chissà che leggendo le frasi di Brecht si possano ravvedere.



Il coraggio di scrivere la verità.


Bertolt Brecht
Sembra cosa ovvia che colui che scrive scriva la verità, vale a dire che non la soffochi o la taccia e non dica cose non vere. Che non si pieghi dinanzi ai potenti e non inganni i deboli. Certo, è assai difficile non piegarsi dinanzi ai potenti ed è assai vantaggioso ingannare i deboli. Dispiacere ai possidenti significa rinunciare al possesso. Rinunciare ad essere pagati per il lavoro prestato può voler dire rinunciare al lavoro e rifiutare la fama presso i potenti significa spesso rinunciare a ogni fama. Per farlo, ci vuole coraggio.
Le epoche di massima oppressione sono quasi sempre epoche in cui si discorre molto di cose grandi ed elevate. In epoche simili ci vuole coraggio per parlare di cose basse e meschine come il vitto e l'alloggio dei lavoratori, mentre tutt'intorno si va strepitando che ciò che più conta è lo spirito di sacrificio.
Quando i contadini vengono ricoperti di onori, è prova di coraggio parlare di macchine e foraggi a buon prezzo, capaci di agevolare quel loro lavoro tanto onorato. Quando tutte le radio vanno gridando che un uomo privo di sapere e d'istruzione è meglio di un uomo istruito, è prova di coraggio domandare: meglio per chi? Quando si discorre di razze superiori e inferiori, è prova di coraggio chiedere se non siano la fame e l'ignoranza e la guerra a produrre certe deformità. Così pure ci vuole coraggio per dire la verità sul conto di se stesso, di se stesso, il vinto. Molti di coloro che vengono perseguitati perdono la capacità di riconoscere i propri difetti. La persecuzione appare loro, come la più grave delle ingiustizie. I persecutori, dato che perseguitano, sono i malvagi, mentre loro, i perseguitati, vengono perseguitati per la loro bontà. Ma questa bontà è stata battuta, vinta, inceppata e doveva quindi trattarsi di una bontà debole; di una bontà difettosa, inconsistente, su cui non si poteva fare affidamento; giacché non è lecito ammettere che alla bontà sia congenita la debolezza così come si ammette che la pioggia debba per definizione essere bagnata. Per dire che i buoni sono stati vinti non perché erano buoni, ma perché erano deboli, ci vuole coraggio. Naturalmente la verità bisogna scriverla in lotta contro la menzogna e non si può trattare di una verità generica, elevata, ambigua. Di tale specie, cioè generica, elevata, ambigua, è proprio la menzogna. Se a proposito di qualcuno si dice che ha detto la verità, vuol dire che prima di lui alcuni o parecchi o uno solo hanno detto qualcos'altro, una menzogna o cose generiche; lui invece ha detto la verità, cioè qualcosa di pratico, di concreto, di irrefutabile, proprio quella cosa di cui si trattava.
Poco coraggio invece ci vuole per lamentarsi della malvagità del mondo e del trionfo della brutalità in genere e per agitare la minaccia che lo spirito finirà col trionfare, quando chi scrive si trovi in una parte del mondo in cui ciò è ancora permesso. Molti assumono l'atteggiamento di uno che stia sotto il tiro dei cannoni, mentre sono semplicemente sotto il tiro dei binocoli da teatro. Vanno gridando le loro generiche rivendicazioni in un mondo amico della gente innocua. Chiedono genericamente una giustizia per la quale non hanno mai mosso un dito e chiedono genericamente la libertà, quella di ottenere una parte del bottino che già da gran tempo è stato spartito con loro. Considerano verità solo ciò che ha un bel suono. Se la verità ha a che fare con cifre, con fatti, se è cosa arida, che per essere trovata richiede sforzo e studio, allora non è una verità che faccia per loro, non ha nulla che li possa inebriare. Solo esteriormente hanno l'atteggiamento di chi dice la verità. Con loro il guaio è che non conoscono la verità.                        
                                                                                     (B. Brecht)

giovedì 23 giugno 2011

Vi regalo Vasco. Regalate proposte.

Cari lettori di Politictac, grazie per il vostro affetto quotidiano. Le statistiche dimostrano che siete sempre di più a visitare questo blog. Spero che il mio progetto di creare un' oasi di informazione e analisi politica indipendente continui a essere di vostro gradimento. Intanto penso che vi siate meritati un premio. Allo stesso tempo, voglio che ve lo meritiate sul campo. Mi spiego meglio: metterò a disposizione un biglietto del prossimo concerto di Vasco Rossi dell' 1 Luglio allo stadio Olimpico di Roma per voi.
Le regole sono semplici; dovrete inviarmi un testo di non più di 2000 battute nel quale esponete la vostra proposta più urgente di riforma del sistema politico attuale. La più brillante sarà premiata col biglietto.
La mail è: politictac@hotmail.it.
Non dimenticate ovviamente di lasciare un recapito telefonico al quale essere contattati. 
Questa sarà la prima di una serie di iniziative volte a far diventare questo blog un laboratorio per una nuova idea di politica. Dai fatti recenti possiamo constatare la latitanza di un serio progetto di radicale riforma della rappresentanza parlamentare di questo paese. Urgono proposte, non solo proteste.
Non basta essere indignati, serve essere impegnati. Io lancio quindi la palla nelle vostre mani da buon playmaker (del resto, ho una carriera alle spalle in tal senso...). Lascio la parola a voi. Avete una settimana di tempo: il bando chiude alle 20 di giovedì 30 giugno. In questi giorni continuate a seguire il blog. Ho tante cose da raccontarvi. 
A presto. Andate al massimo. Andrete a gonfie vele.

Il rinfrescatore

martedì 21 giugno 2011

Corpi e anticorpi. Una generazione rigenerata.

Umberto Eco.
"La rivolta dei giovani è figlia dell' universo dell' industria culturale: salvo che l'uso che i giovani hanno fatto dei prodotti dell'industria culturale non è quello previsto dai profeti, concilianti o surcigliosi (accigliati ndr),  dell'industria medesima. Paradossalmente chi contesta il Sistema è figlio del Sistema che ha prodotto i propri anticorpi". Parole scritte da Umberto Eco nel 1968,  che hanno però un sapore particolarmente attuale se guardiamo alla nostra fase storica e ai processi che la stanno attraversando.
Ha suscitato stupore il fatto che molti giovani partecipassero attivamente a una riconsiderazione della politica. Ormai da più parti si continuava a parlare di generazione perduta, di bamboccioni, di animali domestici incapaci di battersi per un sensibile cambiamento della situazione. Con una certa superficialità di giudizio si credeva che i modelli proposti dalla televisione consumista ed esteticamente elitaria rappresentassero quasi un'intera generazione. Non era così. Mentre bellocci e bellocce sfoggiavano il loro inconsistente narcisismo, adulati da teenager incollate al buco della serratura, cresceva una generazione che non aveva nessuna intenzione di inginocchiarsi a sbirciare. Non per questo cercava, come in altre epoche, di prendere a calci la porta. L' intenzione era semmai l'opposta: lasciare gli 'inconsapevoli' nella propria gabbia mediatica e riaprirsi al mondo attraverso strumenti vecchi e nuovi, dalle piazze a un uso funzionale della rete.
Così è rinata la speranza, colorata di arancione, di viola, ma soprattutto caratterizzata da una dialettica tra persone non vincolate a stereotipi partitici, legate solo dal desiderio di impegnarsi e di indignarsi contro una perenne degenerazione civile.
Questa generazione ha sentito così forte il bisogno di partecipare in prima persona perché si è resa conto della totale assenza di intermediari politici e anagrafici.
La vera generazione perduta è allora forse quella dei 40enni, quelli che nel pieno del loro vigore si sono fatti mettere fumo negli occhi da una gerontocrazia gelatinosa e tentacolare. Se l'Italia non è riuscita ad attuare una vera discontinuità con la Prima Repubblica la colpa è prevalentemente loro, pavidi burattini cresciuti all'ombra di vetusti potentati. Figli di una classe dirigente che concepiva il potere come spartizione di cariche e poltrone, ne hanno portata avanti un'altra dedita al misero compromesso e alla lottizzazione spacciandole per vocazione riformista e politiche di larga intesa.
Non so se i giovani sapranno far sentire la loro voce costantemente. È nella loro natura essere discontinui,  che si tratti di politica, sport o studio. Quello che contava però adesso era fornire una diversa accezione di discontinuità, da intendersi come rottura con schemi retrogradi di certi ipocriti benpensanti.
In quello hanno già vinto una battaglia generazionale con chi li ha preceduti.  E che presto saranno costretti a inseguirli, sempre che ne abbiano le gambe e il cuore per farlo.

lunedì 20 giugno 2011

Pontida val bene un po' di grida.

Tutta fiction. Sul pratone di Pontida si consuma l'ennesima farsa leghista, la solita rimpatriata tra vecchi compagni di lotta. Una volta sognavano di spostare una nazione, adesso si ritrovano a invocare lo spostamento di un paio di ministeri senza portafoglio. La base, accorsa in massa al raduno, mal sopporta la strategia attendista dei suoi dirigenti. Il discorso di Bossi viene interrotto più volte dalle gridate richieste di secessione del pubblico. In quella richiesta c'è un qualcosa di nostalgico; c'è la voglia di ritrovare quella Lega degli inizi che prometteva di scardinare il potere e non di diventarne ingranaggio manovrato. Non è solo una richiesta geografica, ma soprattutto un desiderio di affrancarsi dal berlusconismo, una secessione da chi ha usato il Parlamento per farsi leggi su misura usando i voti leghisti.
Le risposte dal palco però sono tiepide e non scaldano i cuori dei militanti che vogliono azione, senza giri di parole né giochi di palazzo. Chiedono concretezza ma l'unica cosa tangibile che ottengono è la comica targa del prossimo ministero a Monza, feticcio di un potere che non esiste. Nel mostrare quel simbolo alla loro gente, Bossi e Calderoli non si accorgono di quanto la loro sbandierata purezza padana sia contaminata dalla vituperata Roma ladrona. Raccolgono firme per attuare un decentramento anticostituzionale ma soprattutto poco importante per gli stessi padani, a cui poco interessa avere il ministero come vicino di casa se all'interno si continuano a fare gli interessi di altri.
Le camicie verdi applaudono il loro leader malconcio consapevoli di rappresentare il suo bastone della vecchiaia, grati per le lotte intraprese e scettici per l'incompiutezza effettiva di molte di esse. Il Senatùr parla a fatica, ma le sue parole risulterebbero di difficile comprensione anche se fossero lette da Ugo Pagliai.
Minaccia di non appoggiare più Berlusconi se non verrà data un'accelerata alle riforme richieste dal suo partito. Tanta demagogia mal pronunciata; l'anno scorso il senatore Stradiotto del Pd presentò un emendamento alla manovra finanziaria chiedendo di circoscrivere a urgenze particolari l'uso delle auto blu. La Lega votò contro, anche se dal palco di Pontida il suo leader grida contro di esse.
Insulta i giornalisti "coglioni" e "stronzi", sproloquia sui cicli storici sbagliando di una ventina d'anni la fine della Destra storica. Ostenta preoccupazione per le masse di profughi sbarcati dalla Libia, in verità 14000 in tutto, una quota del tutto gestibile. Avvisa Tremonti, gesticola, bofonchia. L'ultimatum a Berlusconi è poco credibile e la gente, che acclama solo Maroni, lo sa.
Ricorda quelle innamorate disposte a perdonare sempre l'amato traditore. La primordiale intransigenza leghista è molto sbiadita nei suoi dirigenti. Mettere il ministero vicino a casa non significa voler stare in mezzo alla propria gente, ma forse solo stare più comodi. È dura fare la rivoluzione dalla poltrona. A Monza o a Roma ha poca importanza.

venerdì 17 giugno 2011

La cultura è in marcia.

Su Repubblica di oggi Saviano parla di un popolo in movimento, di gente che si è messa in marcia senza un percorso definito condividendo però la volontà di unirsi per cambiare il corso delle cose. Ha ragione, ma ci sono anche altri fenomeni più statici che testimoniano quanto sia forte l'esigenza di cambiamento. Ne voglio riportare uno. Ieri sera ho partecipato a una rassegna all'Auditorium di Roma chiamata "Le parole della politica", iniziativa indetta da Repubblica e Laterza per riflettere su alcuni termini abusati dalla società e svuotati spesso di significato. La sala era stracolma e mai come stavolta ho avuto la percezione di come i cittadini non sentano solo il desiderio di muoversi, ma anche quello di fermarsi a riflettere sullo stupro delle parole perpetrato da anni. Le magistrali lezioni ( in questo caso vale la pena di invertire i termini) sono state tenute da Gustavo Zagrebelsky e Barbara Spinelli. Hanno parlato rispettivamente di 'libertà' e di 'etica pubblica'. Giovani e anziani hanno ascoltato in un silenzio tombale, assorti in una meravigliosa liturgia laica. Fermi sulle poltrone, hanno fatto altri passi verso una piena presa di coscienza.
Gustavo Zagrebelsky, costituzionalista.
Si sono sentiti chiamare in causa quando Zagrebelsky ha citato Rousseau e la sua celebre frase "siamo tutti liberi ma in catene". "Libertà è autocondotta più autonomia- ha aggiunto l'oratore- un poter agire conseguente al poter volere", affrontando poi il tema della servitù volontaria attraverso quattro epocali nemici della libertà: conformismo, opportunismo, grettezza e debolezza.
I 'liberi servi' riuniti da Ferrara dieci giorni fa si saranno sentiti fischiare le orecchie per le citazioni di Mill, Dostoevskij e Tocqueville. Loro sono gli estremi paladini del "Popolo della libertà", totalmente inconsapevoli di quanto la libertà sia insidiata dall'omologazione delle anime.
Come ha detto la Spinelli, il popolo (tutto, non solo quello che si autonomina libero) è il vero depositario del potere. Deve diffidare, questo popolo, da chi gli chiede di amare la patria perché ad essa, come insegnato da Kant, si deve rispetto, non amore. 
Barbara Spinelli, editorialista.
Chissà poi se il premier, sempre dichiaratosi amante della cultura francese forse confondendo il Moulin Rouge con Maupassant, avrà sentito riecheggiare le parole del filosofo Ricoeur, "l'uomo è diverso dalle bestie, perché è chiamato a rendere conto di ciò che fa", preludio di una meravigliosa comparazione etimologica sui termini 'comunità' e 'immunità', giocata sulla comune radice 'munus', ossia dovere, onere.
La comunità infatti presuppone qualcosa che viene dato con un onere, implica obblighi gli uni verso gli altri; l'immunità richiama all'opposto la volontà di chiamarsi fuori dalla società, l'impossibilità di essere imputabile di qualsiasi dovere verso gli altri. Una posizione mal conciliabile con l'articolo 54 della nostra Costituzione che parla di speciali doveri di disciplina e onore per chi ricopre funzioni pubbliche, ma anche un'ipotesi spazzata via da 25 milioni di voti pochi giorni fa.
Nel discorso sull' etica pubblica, la Spinelli non ha lesinato accuse alla Chiesa, colpevole di assolutizzare alcuni valori, specie sul testamento biologico, relativizzando di conseguenza i restanti e ponendosi come inconscia sentinella di quell' immunitas sostanziale portata avanti da questo governo.
"Essere super partes significa apprendere una morale pubblica che oltrepassa l'interesse di tutti noi, laddove la parola 'interesse' non ha l'accezione sporca che le attribuiamo oggi ma il suo significato originario: scoperta che c'è qualcosa tra l'io e il tu".
Ascoltate queste parole finali, la gente si è alzata e si è rimessa in marcia verso casa. O forse verso la consapevolezza che qualcosa di meglio rispetto a ciò che ha visto finora è davvero dietro l'angolo. Occorrerà molto impegno, etimologicamente 'dare qualcosa a qualcuno'. Guarda caso, ricorda tanto la parola comunità.

giovedì 16 giugno 2011

Lettera di un lettore.

Stracquadanio
Secondo l'eminente Stracquadanio la sinistra dilaga sul web perché il suo corpo elettorale è formato da persone senza lavoro o che  lavorando poco e male possono permettersi di passare le ore in rete. Una tesi sorprendente quella del deputato del PdL già conosciuto per le pagelle somministrate ai compagni di governo e per essere il barzellettiere prediletto di Berlusconi. Pensandoci bene, non stupisce così tanto sentire frasi così agghiaccianti da una persona che ebbe a dire che le donne facevano bene a usare il proprio corpo per fare carriera politica. C'è prostituzione fisica e prostituzione mentale. Oppure c'è il resto del paese. Al momento la maggioranza di esso. Ho ricevuto ieri una lettera di un ragazzo, Mattia Gangi. Ha scritto per diversi giornali, sta finendo il percorso universitario nei tempi giusti, ha viaggiato e come altri 28 milioni di persone è andato a votare al referendum. Studia i processi di comunicazione sul web e la sua lettera spiega, con meno superficialità rispetto allo "stakanovista" deputato del Pdl, le ragioni della mobilitazione tecnologica cui stiamo assistendo. Vi lascio alla lettura.





Il mio televisore 32'', comprato con soddisfazione durante un impeto di consumismo natalizio, dorme, spento, deturpato delle sue funzioni primarie. Colpevolmente non ho chiamato l'antennista, non ho collegato il digitale terrestre; da mesi il mio enorme telefunken ultra piatto, HDMI, tecnologia LED, mi guarda silenzioso, attivandosi solo quando pietoso inserisco la pennetta USB, o l'hard disk, per spararmi in modo criminale una quantità abnorme di film e serie Tv che allietano le mie serate solitarie, e le mie nottate in compagnia.  Tuttavia  il fatto stesso di non guardare la televisione non mi rende migliore dei tanti, troppi, milioni di italiani che lo fanno; né mi rende immune dalle vagonate di merda che ogni giorno siamo costretti a sorbire attraverso la congiura mediatica cui siamo sottoposti.

Un televisore spento.
Perché passo la prima parte della mia giornata a leggere la rassegna stampa, leggo i quotidiani online e guardo i programmi Rai attraverso la piattaforma digitale di Rai.tv. Tra l'altro sono un acceso sostenitore delle nuove tecnologie, e lo sarei stato anche cinquant’anni fa quando il tubo catodico conquistava la vita dei miei concittadini. Avrei speso la stessa quantità di soldi rapportati al cambio degli anni '50 per un enorme telefunken di prima generazione all'interno del quale guardare con stupore la realtà rappresentata, il mondo al di fuori della mia portata oculare. Vi dirò di più, allo stesso modo in cui mi sono comprato uno Smartphone ed abuso dei piaceri tattili del touch screen, negli '80 avrei comprato una macchina da scrivere digitale e nei '90 uno dei primi Mac Book con schermo in bianco e nero.

Domenica sono stato a votare per il referendum del 12 e 13 Giugno che ha segnato una vittoria schiacciante dei Sì. E ho votato 4 Sì. La politica ne ha parlato molto, il giornalismo televisivo invece è stato colto da un'irrefrenabile ondata di stitichezza informativa. Le home dei giornali online sono state invase di contenuti video, audio e di articoli che hanno rappresentato la vittoria referndaria come risposta della cittadinanza all'affarismo rapace della classe politica; i social network ed i blog – come questo – hanno smosso un'opinione pubblica narcotizzata dall'incubo anni '80 nel quale i dirigenti Rai e Mediaset l'hanno incatenata da vent'anni. Ora, non voglio certo dire che i nuovi mezzi di comunicazione siano la risposta per rivitalizzare una democrazia da sempre scricchiolante come la nostra, ma di certo qualcosa è cambiato nell'approccio alle tematiche politiche e prima di tutto sociali.

Qualcosa si è smosso nella palude del qualunquismo e dell'indifferenza tanto da portare soggetti storicamente impermeabili all'attivismo politico a mobilitarsi in prima persona, non solo come soggetto passivo ma come agente primario di una rivoluzione morbida che vede nel passaparola il suo punto focale. I balbettii indecifrabili della casta giornalistica che occupa militarmente le emittenti dimostrano la stessa impreparazione culturale di una classe politica che, o blatera idiozie senza senso ( PDL – Lega ), o cerca spasmodicamente di appropiarsi di un risultato di cui non è neanche lontamente responsabile ( PD ).  In altri paesi questi stessi signori stanno cercando di fiutare il vento che cambia adattandosi alle novità messe in moto dal Web, modificando la produzione dei contenuti e riadattando il loro linguaggio ad un elettorato sempre più attento e sempre meno coglione.

Persino il mio telefunken spento ed acceso a singhiozzi ha capito che qualcosa non quadra, e i suoi progettisti hanno inserito la funzione televisiva tra le altre, ad un livello di pari importanza. Premendo un paio di tasti sul telecomando il mio televisore diventa uno schermo per il computer, l'interfaccia della mia Wii e del mio lettore DVD ed infine un lettore di device esterni. Senza soffrire di crisi d'identità il brand che ha prodotto per una vita televisori, che per decine di anni hanno trasmesso in modo monodirezionale il mainstream della politica, ha deciso di cambiare prodotto producendo il medesimo elettrodomestico ( che fa tanto anni '70).

Quello che voglio dire è che, senza eccessi di entuasismo tecnologico, abbiamo la possibilità di cambiare e personalizzare la nostra dieta mediatica. L'evoluzione dei prodotti, chiaramente sfuggita di mano ai tecnocrati, permette spiragli insospettati di invulnerabilità di fronte all'eterodirezione del pensiero unico. Approfittiamone no? 

mercoledì 15 giugno 2011

Colpi bassi alla società.

Renato Brunetta rappresenta, anche sotto il piano iconico, la bassezza di questo governo. Lo ha dimostrato nelle sue arroganti apparizioni pubbliche, solitamente contraddistinte da atteggiamenti isterici e volgarità lessicali. Dice di essere un uomo dei fatti, ma i dati lo sconfessano: la promessa rivoluzione tecnologica della pubblica amministrazione non è mai arrivata e gli impiegati lavorano ancora con strumenti inadeguati alla modernità. Divenne celebre un suo attacco alla scarsa produttività lavorativa dei dipendenti statali, quei "fannulloni" che il ministro prometteva di licenziare, premiando invece i lavoratori più meritevoli. Niente di tutto questo è successo. Ieri un gruppo di precari della pubblica amministrazione ha cercato di rivolgergli delle domande riguardo alla propria drammatica situazione. Probabilmente si aspettavano di non ricevere risposte concrete, ma non potevano immaginare che il ministro li avrebbe additati di essere "l'Italia peggiore", ovviamente senza ascoltare le loro ragioni e fuggendo con l'auto blu. Questa è la sequenza ripresa dalle telecamere.


In quell'immagine del precario che si pone davanti alla macchina ministeriale c'è la perfetta rappresentazione della società italiana di oggi. C'è l'arroganza di un potere arroccato nella sua viltà, incapace di dare rispetto e risposte a chi si trova in difficoltà. C'è la noncuranza di un governo che non ha la capacità né di innovare, né di mantenere standard accettabili. Per questo fugge, rifugiandosi nelle proprie roccaforti, forse consapevole di essere più precario di quei lavoratori che non riesce neanche a guardare in faccia. Per un attimo in quella sequenza ho rivisto Piazza Tienanmen e lo studente cinese che si mette davanti al carro armato. Certo, qui il potere si limita a sparare idiozie, non avanza coi cingolati e al massimo sgattaiola con la sirena d'ordinanza. Qui il governo non reprime, ma deprime.
Non è quella che pensa Brunetta l'Italia peggiore;quella da lui vituperata è un'Italia che lavora, sfruttata, sottopagata e senza prospettive. Non chiede di faticare meno e avere di più. Chiede quello che le spetta e non vuole più aspettare. 
Se proprio ci tiene a sapere qual è l'Italia peggiore, si faccia invitare a cena dal suo presidente del Consiglio. Poi vada in uno di quei bagni dove le invitate si facevano le foto souvenir; in punta di piedi si guardi allo specchio. E in punta di piedi esca di scena. Ah, chiuda la porta, grazie.
Sa com'è, tira vento ultimamente.

martedì 14 giugno 2011

Lunedì Sì fa la rivoluzione. Sì Sì Sì.

13 giugno: matrimonio con la democrazia
Per il terzo lunedì nel giro di un mese, l'Italia che ha smesso di ridere alle barzellette del suo non più ineffabile premier sorride di fronte ai risultati delle urne. Il paese della risatina di circostanza, accondiscendente davanti all'occupazione privatista della sfera pubblica, torna a guardare col sorriso sulle labbra un futuro che non sembra più una prospettiva utopica.
C'è chi ha ancora il coraggio di dire che questo referendum non deve avere una valutazione politica. Mi scappa da ridere: come si può non considerare il voto di ventotto milioni di italiani, quasi unanimi nel cancellare quattro pilastri legislativi del governo in carica, una chiara e luminosa risposta politica ? L'istituto referendario è l'atto politico per eccellenza perché chiama in causa, senza intermediazioni partitiche, i cittadini, interrogandoli sulla bontà o meno della condotta dei loro rappresentanti. La sovranità popolare viene in queste occasioni esercitata nel modo più chiaro possibile: sì o no, giusto o sbagliato. Una massa di persone ha scritto su quattro diverse schede che questo governo ha sbagliato; attraverso una partecipazione corposa ha avvertito parecchi cartonati immobili travestiti da politici che c'è una società in evoluzione, ormai disposta a informarsi per vie tortuose pur di avere coscienza e conoscenza di ciò che le succede intorno.
Hanno detto in molti che questo raggiungimento del quorum è frutto della definitiva affermazione della rete sulla televisione per quanto riguarda la comunicazione politica e i suoi derivati. Concordo solo in parte. È vero che la mobilitazione su internet ha aggregato un consenso insperato ma non bisogna dimenticare che la silenziosa marcia di uscita dal berlusconismo è cominciata dalla televisione, quando dieci milioni di persone hanno scelto di guardare Vieni via con me anziché inocularsi l'ennesima dose di Grande fratello. Era, guarda caso, sempre lunedì. Così com' era lunedì quando Gad Lerner nel corso della sua trasmissione rimbrottava aspramente l'intervento telefonico di Berlusconi, come al solito unilaterale e offensivo. Per non parlare di Annozero, talmente seguito che il premier gli ha attribuito responsabilità per la batosta elettorale. Non conta il mezzo, contano i contenuti; il segnale più positivo è semmai il fatto che di fronte ad un oscurantismo o a un deficit di credibilità della televisione, la gente riesca a trovare strumenti informativi alternativi e coinvolge i più restii a partecipare a questo processo di rinnovata educazione civica.
Il sì urlato in piazza.
Ho sentito Formigoni sostenere una tesi interessante, ossia che gli italiani avrebbero votato contro il governo qualsiasi   domanda inserita nei referendum perché la priorità popolare era mandare a casa Berlusconi. Forse sottovaluta un po' l'alta qualità dei quesiti proposti, ma probabilmente centra un problema cruciale: il paese non vuole più Silvio Berlusconi come capo del governo. In un certo senso è stato un referendum ad personam, soprattutto perché la gente che si spende quotidianamente per i temi pubblici non tollera più un leader teocratico ed egoista, mai in grado di scendere da un piedistallo sempre più simile al trespolo di un pappagallo in gabbia. Un primo ministro che ogni lunedì deve presentarsi in tribunale a rispondere di svariate accuse. Forse davvero le persone avrebbero votato qualsiasi cosa contro di lui, ma non lo avrebbero fatto per semplice presa di posizione: qualsiasi quesito posto dal popolo non può trovare risposta da chi lo governa, un uomo troppo coinvolto nel risolvere i propri problemi per occuparsi dei problemi di tanti. Meglio darsele da soli allora certe risposte. Sembra Marzullo, ma è democrazia.   

lunedì 13 giugno 2011

Quattro matrimoni. E una speranza.

Siamo a poche ore dai risultati del referendum. Il tanto atteso quorum si giocherà sul filo di lana e già questo è un successo, considerando i tentativi oscurantisti delle televisioni generaliste. Il referendum è un esercizio di democrazia diretta, un nobile atto di coscienza. Attraverso una semplice risposta, il cittadino può incidere senza ulteriori intermediari sul processo legislativo e dare un colpo di vernice a ciò che reputa sbagliato. Quello che è accaduto nelle ultime due settimane è sinceramente commovente; i vuoti di informazione sono stati colmati da una campagna capillare partita dal basso, arrivata ovunque con ogni mezzo. Dopo l'elettroshock delle amministrative, tanti si sono sentiti parte di un'onda lunga, di un moto in grado di scuotere un potere che ha sempre meno attinenza con la base.
C'era un'atmosfera particolare nei dintorni dei seggi. Sguardi complici, teste alte e una silenziosa solidarietà, frutto della consapevolezza di sentirsi dalla parte giusta in questa guerra civile tra coscienti e indifferenti. Una battaglia di democrazia pura, combattuta coltivando il sogno di essere così tanti da cambiare scenografia e sceneggiatura, diventando gli attori protagonisti di un film ancora inedito. Ognuno ha trovato la sua trincea nelle cabine elettorali, uno splendido luogo per fare la rivoluzione, armati semplicemente di matita e schede colorate.
C'è qualcosa di sacro nel rispondere ai quesiti referendari. Di fronte a quelle domande, i seggi si trasformano in altari; magicamente milioni di cittadini vanno a sposarsi con la democrazia. E stavolta c'erano da dire quattro fatidici sì per celebrare quattro matrimoni. E un funerale. Sapete già di chi. Magari sarà davvero un gran bel film. Se qualcuno non ha ancora partecipato, veda di sbrigarsi. A meno che non voglia fare la comparsa in una pellicola soporifera e ripetitiva.

sabato 11 giugno 2011

Enrico Berlinguer, già 27 anni fa.

In un' Italia che si appresta a decidere il suo destino, sfruttando o meno l'occasione referendaria per spazzare via l'agonizzante governo in carica, in pochi si sono ricordati che un tragico 11 giugno di 27 anni fa moriva a Padova Enrico Berlinguer. 
Quattro giorni prima era stato colpito da un ictus durante un comizio.  Quel giorno, soffrendo visibilmente, portò comunque a termine uno di quei solidi discorsi di lotta e di speranza capaci di rendere possibili i sogni di un elettorato che si era sempre vista preclusa la guida del governo. Enrico Berlinguer era un anti divo, per quanto un certo culto della personalità tipico del passato comunista lo avesse reso un "personaggio". Era un uomo schivo, che passava per triste ma in realtà riservava alla sua sfera più intima la sua gioia di vivere; aveva a che fare con troppi problemi per sorridere di fronte alla realtà di quegli anni: la conventio ad excludendum, la presa di distanza da Mosca, il fallimento del compromesso storico, l'eterna e vana rincorsa a un potere che nascondeva gelosamente le sue stanze.
E poi la tanto attuale questione morale, da lui evocata nel lontano 1977, quando decise di denunciare la deriva di un sistema di potere che stava perdendo di vista il bene comune. Non piaceva a tutti, per la verità: su Repubblica una vignetta di Forattini lo ritraeva intento a prendersi un thè in un borghese caffè mentre fuori infuriava la protesta sociale; Scalfari denunciò gli eccessi del culto della sua figura in uno storico articolo che titolava "Berlinguer non è la Madonna". 
Delimitare il pensiero di quest'uomo e la sua volontà di trascinare al cambiamento, portando allo stesso tempo fuori dal dogmatismo sovietico, il suo partito, non è riassumibile in un post. 
Quello che posso fare per farvi riflettere su chi era Enrico Berlinguer è lasciarvi delle immagini: quelle del suo ultimo comizio e quelle dei suoi maestosi funerali di popolo.
Quel giorno l'allora Presidente della Repubblica, l'indimenticabile Sandro Pertini, si chinò con la testa sulla bara e la baciò; pochi giorni prima aveva portato via, con l'aereo di Stato, la bara dall'ospedale di Padova in cui era accorso per rendergli visita, dicendo semplicemente: "Lo porto via, come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta". Erano tempi in cui certi politici sapevano sempre trovare le parole.Prima di essere portato via, in quel tragico comizio, trovò la forza di dire: "Compagni, proseguite il vostro lavoro, andate casa per casa, strada per strada." Furono le sue ultime parole.
Aggiungerne altre da parte mia sarebbe davvero superfluo.
Vi lascio alle immagini.

giovedì 9 giugno 2011

Tu chiamale se vuoi evasioni.

È opinione diffusa che gli italiani non abbiano uno spiccato senso civico e che il degrado delle istituzioni nazionali derivi anche da una tendenza autolesionista a radicalizzare qualsiasi scontro. Il patriottismo è stato a lungo un valore occasionale, per di più legato a eventi sportivi, e gli interessi individuali sono stati tendenzialmente anteposti al bene comune. Bisogna però anche riconoscere che i nostri connazionali sono sempre stati in grado di ritrovare una certa unità d'intenti per superare i momenti più cupi: gli esempi delle due guerre sono una chiara testimonianza in tal senso, così come il superamento degli anni di piombo e dell'odissea giudiziaria di Tangentopoli. In quei momenti il popolo ha preso coscienza della situazione e ha affrontato di petto i problemi.
Cesare Battisti, patriota.
Nelle città in cui abitate è molto probabile che ci sia una strada o una piazza intitolata a Cesare Battisti e la targa sarà probabilmente completata dalla dicitura 'eroe nazionale'. L'uomo di cui si parla fu un irredentista trentino, socialista, arruolatosi nell'esercito italiano per combattere l'Austria; la sua lotta per liberare Trento finì nel luglio del 1916, quando fu catturato dalle truppe nemiche e impiccato dopo un processo sommario; avrebbe potuto salvarsi ma rivendicò fino in fondo gli ideali che lo avevano portato allo scontro. Le testimonianze dell'epoca dicono che le sue ultime parole furono "Viva l'Italia!", un grido che avrebbe spinto gli altri combattenti a perseguire l'unità territoriale del paese.  
Cesare Battisti, latitante in Brasile.
Una sessantina di anni dopo, in un'Italia riunificata e repubblicana, un altro Cesare Battisti si affacciò sulla scena con l'intento di dividere ciò che era stato faticosamente unito. Erano gli anni di piombo, un periodo in cui si moriva per le strade per divergenti visioni politiche ma anche solo perché capitava di trovarsi nel mezzo a questa criminale degenerazione ideologica. Battisti apparteneva ai Proletari armati del comunismo (Pac), una di quelle tante formazioni createsi in quegli anni da una parte e dall'altra della barricata, uno di quei troppi gruppi che portarono un'Italia insanguinata sull'orlo della guerra civile. 
Nel perseguire i propri ideali, l'omonimo dell'eroe di guerra, si macchiò di quattro delitti e fu per questo  arrestato e condannato all' ergastolo. Questo Battisti scelse però una via diversa: approfittando delle lacune nella sicurezza del carcere di Frosinone, fuggì dall'Italia e dalla propria coscienza; riparò in Francia, dove una sgangherata prassi giudiziaria, la dottrina Mitterrand, gli permise di vivere lì come rifugiato politico. Dimenticò in fretta la lotta proletaria, sposando la causa salottiera, facendo comunella con quella gente alto borghese a cui pochi anni prima avrebbe puntato una pistola alla tempia. Quando  la comunità europea sconfessò la dottrina, fu costretto di nuovo alla fuga, entrando in quel Brasile che poco dopo lo arrestò per falsificazione di documenti. Una cosa normale per uno che aveva barattato l'identità. Il rifiuto di estradizione è storia di questi giorni e per approfondire il profilo giudiziario ho consultato un ricercatore di diritto internazionale, Domenico Pauciulo dell'Università del Molise.
Domenico Pauciulo,
esperto di diritto internazionale
La sua spiegazione è chiarissima: "L'intera vicenda dimostra la debolezza politica dell'Italia in politica estera. Nel diritto internazionale sono molto rilevanti i rapporti di forza e le azioni diplomatiche: la nostra classe politica ha mostrato debolezza nel non saper imporre le proprie ragioni e nel far valere i trattati bilaterali col paese sudamericano. Il trattato del 1989 stipulato col Brasile prevede che siano riconsegnate al paese di origine le persone ricercate o coloro che devono scontare le pene comminate dal proprio ordinamento giudiziario.
 Tuttavia l'accordo prevede una serie di clausole che consentono alla nazione ospitante di non estradare una persona che corra il rischio di essere perseguitato per reati politici o processato per essi. Il Brasile ha riconosciuto lo status di rifugiato politico, attraverso un provvedimento firmato a fine mandato dal presidente uscente Lula, deputato a giudicare la questione, in quanto problema di politica estera. Il ricorso dell' Italia è stato rigettato dal Tribunale supremo e il nostro governo si trova davanti solo strade in salita per giungere a conclusioni positive; improbabili missioni speciali per prelevare il latitante; sterili sanzioni economiche, completamente irrisorie considerata la crescita economica del Brasile; oppure un complesso percorso giudiziario, fondato su un già annunciato ricorso alla Corte internazionale di giustizia per la violazione del suddetto trattato dell'89 e per l'inadempimento del Trattato di Vienna sul rispetto dei trattati.
Tuttavia il ricorso deve essere preceduto da un tentativo di conciliazione, come previsto dalla Conciliazione degli ordinamenti giudiziari stipulata nel '54; nel caso che falliscano, come probabile, gli obbligatori negoziati diplomatici e tentativi di compromesso, si giungerà alla Corte, che non ha però un potere di sanzione assoluto. È quindi possibile che dopo questo lungo iter, seppure in presenza di una pronuncia favorevole, l'Italia sia ricompensata con un semplice risarcimento monetario o beffarde scuse ufficiali".
Tirando le conclusioni, appare sconcertante l'idea che la comunità internazionale si è fatta del nostro sistema di giustizia. Prima Mitterrand,poi Lula hanno reputato l'Italia incapace di processare serenamente gli autori di efferati crimini, temendo nell'incuria e nell'estremismo di una magistratura politicizzata. Che ironia sentire il nostro premier parlare di brigatismo giudiziario e vedere manifesti del Pdl invocare la cacciata delle Br dalle procure. Se così fosse, gli strenui difensori di Battisti lo avrebbero imbarcato sul primo aereo.
 

mercoledì 8 giugno 2011

Lei non si rende conto. E non si arrende ai conti.

Michele Santoro.
Giovedì sera Michele Santoro sarà per l' ultima volta un conduttore della Rai. Condurrà la sua ultima puntata di Annozero e poi, con tutta probabilità, passerà a La7. "È il mercato, non ci trovo niente di grave". Chi pensereste che possa aver pronunciato questa frase? Potreste pensare a Santoro stesso, perché un giornalista così ascoltato e seguito dal pubblico potrebbe cercare di strappare un contratto migliore in una tv privata meno sottoposta a vincoli economici e politici; ma sappiamo bene che l'intento divulgativo e la passione per il proprio lavoro non  avrebbero mai fatto fare una scelta venale e fredda a un giornalista molto legato alla sua redazione. Allora potreste pensare che sia stata l'azienda stessa a fare questa dichiarazione; assolutamente no; la Rai, dalla nuova direzione generale all'ultimo fattorino, sa benissimo quanto Annozero abbia fatto guadagnare in termini economici alla rete: 6 milioni di guadagno all'anno, un'audience media di 5 milioni e mezzo di spettatori, pari al 21% di share.  Una mosca bianca nel grigio palinsesto di Rai 2, mai sopra l'8% di share nelle altre prime serate. Ragionando in termini di mercato, sarebbe una scelta suicida cacciare un conduttore con uno stipendio da 600 mila euro annui che consente all'azienda un guadagno di dieci volte superiore.
Cominciamo allora con lo svelare l'autore della frase: il super tuttologo Daniele Capezzone, ex radicale con aria da saccente primo della classe, ora portavoce del PdL, ma sempre arrogante e inopportuno. Per quanto sia ovvio come sia stato il mercato più che la credibilità politica a guidare le scelte dell'ex delfino di Pannella, appare stupefacente vedere come un  liberale-liberista come lui,  non riesca a rendersi conto di come un'azienda, pubblica o privata che sia, possa fare una scelta così azzardata, compromettendo la sua competitività economica. Perché non dire la verità e non parlare di "politica aziendale"?
Daniela Santanchè.
Mentre Belpietro e Sallusti dalle loro prime pagine gioivano per il fatto che i cittadini non avrebbero più pagato l'odiato tribuno nemico, dimenticando però di ricordare come i loro poco sfogliati quotidiani usufruiscano di laute sovvenzioni statali, la naturale verità sul caso arrivava dalla bocca artificiale di Daniela Santanchè: "Santoro chiude? Evviva! Mi invitava sempre al suo programma per far fare brutta figura alla destra".
Una frase impareggiabile, un'inattesa presa di coscienza di una classe dirigente che ammette di non essere in grado di sostenere un dibattito su certi livelli, ma che non per questo rinuncia ad apparire. Meglio eliminare il problema Santoro e continuare a far credere di essere molto intelligenti nel salotto strappalacrime di Barbara D'Urso. 
Lorenza Lei, direttore generale Rai.
Non tutto il male viene per nuocere comunque. Santoro andrà in una rete che sta raccogliendo i patrimoni lasciati per strada dalle timorate tv generaliste; dovrà garantire ascolti, forse non potrà sperimentare come vorrebbe da subito nuove forme di informazione, ma quando porteranno le sue "cassette" a Palazzo Grazioli, lui potrà continuare a fare il suo lavoro senza condizionamenti. Lui, quello che telefona in diretta, forse non sarà neanche più al governo e magari dovrà rispondere di altre telefonate. Lei, quella che fa così di cognome, probabilmente si renderà conto di aver commesso uno sbaglio. Noi, quelli col telecomando, sapremo cosa scegliere.  

lunedì 6 giugno 2011

De Magistris, non Masaniello.

Masaniello.
Nel celebrare la vittoria di De Magistris, molti napoletani in festa hanno commentato così: "Finalmente è tornato Masaniello". In realtà bisogna sperare, sia per loro che per il nuovo sindaco, che non si tratti di un revival. La storia di Tommaso Aniello, in arte Masaniello, pescivendolo e capopopolo della rivolta del 1647, è una storia tragica e senza speranza, con ben poche assonanze rispetto al percorso appena intrapreso dall'ex magistrato. L'avventura del ribelle del XVII secolo iniziò e si esaurì nel giro di dieci giorni di un luglio infuocato, non tanto per ragioni climatiche, quanto per le rivolte che seguirono l'ennesima vessazione fiscale imposta dal viceré spagnolo. La sommossa, partita dalla maleodorante Piazza del Mercato e guidata da questo giovane pescatore al grido Viva lo re, mora lo malgoverno, degenerò presto. Sebbene coi suoi provvedimenti la pressione fiscale fosse calata, alcuni suoi iniziali compagni di lotta lo tradirono, preoccupati dal fatto che Masaniello stesse assumendo atteggiamenti dittatoriali e accenti sempre più giacobini. Il suo giustizialismo verso i sostenitori del vecchio potere si era spinto all'estremo; furono i suoi stessi amici ad avvelenarlo e a farlo fuori, ristabilendo lo status quo. Il suo corpo fu gettato vicino a un cumulo di rifiuti (toh...) e la città, nuovamente vessata, ricadde sotto l'arroganza del duca d'Arcos.
De Magistris
I napoletani di oggi ne hanno fatto sopravvivere la leggenda, avendolo issato a simbolo di una lotta estrosa contro il potere costituito e contro le amministrazioni egoiste e disoneste. De Magistris è diventato il suo erede nell'immaginario collettivo perché incarna lo stesso spirito di rottura con la cattiva gestione precedente e forse perché quel cattivo odore di cui parlavano le cronache di 364 anni fa è ancora molto diffuso. Per questo nessuno più dei cittadini partenopei ha  bisogno di una ventata di cambiamento, ma i presupposti sono ben diversi; il neosindaco è nato al Vomero, nella parte ricca, è un ex giurista ed è, per quanto una certa stampa si sforzi a dipingerlo come un pericoloso estremista, tutt'altro che un avventuriero. 
La sua missione è il ripristino della legalità in una terra che non cerca capipopolo, ma risposte concrete. L'incarico che gli è stato conferito ha il chiaro significato di sbarrare il passo agli imbonitori di piazza e la speranza di tornare a seguire la legge sotto la guida di un'amministrazione che non si faccia legare le mani da quelle organizzazioni criminali che l'hanno ridotta in un perenne stato di emergenza. 
Poco prima di essere ucciso, già sotto i fumi dell'allucinogeno somministratogli, Masaniello urlava alla folla disperato : "Ti ricordi, popolo mio, com'eri ridotto?". Adesso quella gente, imprenditori e operai, commercianti e disoccupati, ha preso coscienza e inviato il suo segnale. Sta a De Magistris scrivere una storia diversa e ridare speranza a una città troppo spesso abbandonata dalle istituzioni. 

domenica 5 giugno 2011

Intervista a Giulia Innocenzi, volto di Annozero e autrice di "Meglio fottere".

La copertina del romanzo di Giulia Innocenzi.
Giulia Innocenzi è una ragazza in controtendenza rispetto ai "bamboccioni" evocati dal compianto Padoa Schioppa; trasferitasi a Roma per studiare alla Luiss otto anni fa, la ventisettenne romagnola ha bruciato le tappe: un'appassionata militanza politica nel mondo radicale, contraddistinta dall'impegno nell'associazione Luca Coscioni; la candidatura alla segreteria dei Giovani Democratici, con 12 mila voti riscossi, validi per ottenere il secondo posto; da 2 anni inoltre Michele Santoro l'ha scelta per condurre lo spazio dedicato ai giovani all'interno di Annozero. Giovani e politica quindi; due mondi che si sono spesso guardati con scetticismo ma anche con reciproca curiosità. Giulia ha riassunto l' esperienza accumulata e il suo punto di vista in un romanzo d'inchiesta intitolato "Meglio fottere.(che farsi comandare da questi)" (ed. Internazionali Riuniti), nel quale racconta 4 storie non vere ma verosimili di altrettanti giovani desiderosi di fare politica all'interno dei partiti, raffigurati con simbolici nomi di fantasia ma facilmente identificabili.

Qual è l'obiettivo del libro?
Denunciare il  malfunzionamento dei partiti, ormai ridotti a cordate di potere autoreferenziali e burocratiche. Ho voluto sottolineare i loro meccanismi di reclutamento, fondati su un sistema di cooptazione che fa sì che siano i peggiori e non i più meritevoli a occuparsi del bene comune.

Hai fatto una tesi sulla partitocrazia e conosci a fondo il mondo giovanile; come partecipano i giovani alla politica di oggi?
Credo che la logica partitica sia in forte calo; i ragazzi sono interessati e partecipano alla cosa pubblica, ma preferiscono farlo attraverso i movimenti, aggregandosi intorno ad alcuni pilastri come la Costituzione, la libertà e la lotta al precariato. Il successo del popolo viola è un esempio in tal senso.

Ecco, parliamo di movimenti. Tu hai visto da vicino la protesta degli "indignados" a Madrid; perché nei giovani italiani, alle prese con una situazione molto simile, non scatta la stessa scintilla?
Perché manca una piena consapevolezza della propria condizione; in Spagna i ragazzi dicono: "Non ci basta essere il futuro, vogliamo essere il presente"; i nostri invece, pur sapendo di vivere in un sistema che crea disuguaglianze, preferiscono attendere e magari trovare un posto all'interno di esso piuttosto che lottare per cambiarlo.

Come vedi Beppe Grillo? Un demagogo populista o un illuminato innovatore?
Ti rispondo come farebbero i suoi seguaci: è un comico. Sicuramente è stato bravo a portare al centro dell'agenda tematiche serie, parlando di ambiente, di meritocrazia, di conflitti di attribuzione e non solo; il problema è che a volte non capisce o finge di non capire che la politica è una cosa seria e che certe battute, vedi le storpiature dei nomi, tolgono inconsciamente credibilità a tutto il movimento.

Nel tuo libro la figura di Lisa, candidata a poco trasparenti primarie all'interno del "Partito di Tutti", è certamente la parte più autobiografica del romanzo. La tua critica alle poco democratiche nuove leve del partito è pungente; credi che una certa omologazione giovanile sia bipartisan?
Senza dubbio. Anzi. Spesso emergono giovani che parlano un linguaggio autoreferenziale e anacronistico, lontano dalla gente e sostanzialmente incomprensibile. Occorre che questi giovani leader ricomincino a sintonizzarsi con la società in cui vivono. (Ogni riferimento a Fausto Raciti, segretario dei Giovani Democratici e suo antagonista nelle elezioni di tre anni fa, non è puramente casuale..ndr).

Tu provieni dal mondo dei Radicali, non troppo brillanti nelle ultime consultazioni elettorali. Che apporto concreto potrebbero dare alla politica attuale?
Le idee radicali restano vincenti soprattutto su due aspetti: in ambito economico, attraverso la liberazione del mercato da lacci e lacciuoli, ponendo al centro del sistema l'individuo sulla scia del modello nordeuropeo; in ambito sociale, affrancando i singoli dall'ingerenza statale nelle decisioni più private, ossia le decisioni sul fine vita e la piena libertà sessuale. Trovo grave che ci sia poco spazio per un serio dibattito pubblico sul rapporto tra etica e politica.

Che conclusioni hai tratto del risultato delle amministrative?
C'è stato un netto scatto popolare; la gente si è stufata di incassare passivamente e si è mossa per un cambiamento. I sindaci che hanno ottenuto i maggiori consensi sono stati quelli capaci di stare in mezzo alla gente, di ascoltarne i bisogni e di creare un'empatia con un elettorato che ha valutato le singole persone e non le sigle politiche. Perciò si può dire che hanno vinto i cittadini e hanno perso i partiti.

Il crollo di consensi del premier è stato anche imputato alla mobilitazione femminile contro la mercificazione del corpo delle donne emerso dalle inchieste giudiziarie; a molte ospiti di Villa san Martino venivano promesse e talvolta concesse cariche istituzionali. E' una degenerazione dell'originaria idea delle "quote rosa"?
Anni fa ritenevo necessario riservare una porzione di "poltrone" alle donne, per fronteggiare un arroccato sistema maschilista, poco disposto a concedere possibilità a femmine meritevoli e capaci. La degenerazione del potere, coi suoi meccanismi di cooptazione, mi ha fatto cambiare idea: vedere certe donne in posizioni importanti è squalificante per tutte coloro che lottano per costruirsi il successo dignitosamente; meglio allora non contingentare e sperare che i cittadini siano in grado di scegliere i rappresentanti più idonei, uomini o donne che siano.

A proposito di pregiudizi maschilisti, Belpietro ti ha definito "velina di sinistra". Tu come lo definiresti?
(Ride) Belpietro è un giullare di destra che deve solo allietare il suo committente.

Per concludere, credi che i partiti possano riassorbire i bisogni della società, ristrutturandosi,o che siano destinati a scomparire?
Ho un'idea piuttosto radicale sul tema: credo che i partiti siano ormai obsoleti e che sia necessario trovare al più presto nuovi strumenti di partecipazione e di rappresentanza. Sto facendo un dottorato di ricerca su questo tema; spero di elaborare al più presto qualche soluzione adeguata.