venerdì 17 giugno 2011

La cultura è in marcia.

Su Repubblica di oggi Saviano parla di un popolo in movimento, di gente che si è messa in marcia senza un percorso definito condividendo però la volontà di unirsi per cambiare il corso delle cose. Ha ragione, ma ci sono anche altri fenomeni più statici che testimoniano quanto sia forte l'esigenza di cambiamento. Ne voglio riportare uno. Ieri sera ho partecipato a una rassegna all'Auditorium di Roma chiamata "Le parole della politica", iniziativa indetta da Repubblica e Laterza per riflettere su alcuni termini abusati dalla società e svuotati spesso di significato. La sala era stracolma e mai come stavolta ho avuto la percezione di come i cittadini non sentano solo il desiderio di muoversi, ma anche quello di fermarsi a riflettere sullo stupro delle parole perpetrato da anni. Le magistrali lezioni ( in questo caso vale la pena di invertire i termini) sono state tenute da Gustavo Zagrebelsky e Barbara Spinelli. Hanno parlato rispettivamente di 'libertà' e di 'etica pubblica'. Giovani e anziani hanno ascoltato in un silenzio tombale, assorti in una meravigliosa liturgia laica. Fermi sulle poltrone, hanno fatto altri passi verso una piena presa di coscienza.
Gustavo Zagrebelsky, costituzionalista.
Si sono sentiti chiamare in causa quando Zagrebelsky ha citato Rousseau e la sua celebre frase "siamo tutti liberi ma in catene". "Libertà è autocondotta più autonomia- ha aggiunto l'oratore- un poter agire conseguente al poter volere", affrontando poi il tema della servitù volontaria attraverso quattro epocali nemici della libertà: conformismo, opportunismo, grettezza e debolezza.
I 'liberi servi' riuniti da Ferrara dieci giorni fa si saranno sentiti fischiare le orecchie per le citazioni di Mill, Dostoevskij e Tocqueville. Loro sono gli estremi paladini del "Popolo della libertà", totalmente inconsapevoli di quanto la libertà sia insidiata dall'omologazione delle anime.
Come ha detto la Spinelli, il popolo (tutto, non solo quello che si autonomina libero) è il vero depositario del potere. Deve diffidare, questo popolo, da chi gli chiede di amare la patria perché ad essa, come insegnato da Kant, si deve rispetto, non amore. 
Barbara Spinelli, editorialista.
Chissà poi se il premier, sempre dichiaratosi amante della cultura francese forse confondendo il Moulin Rouge con Maupassant, avrà sentito riecheggiare le parole del filosofo Ricoeur, "l'uomo è diverso dalle bestie, perché è chiamato a rendere conto di ciò che fa", preludio di una meravigliosa comparazione etimologica sui termini 'comunità' e 'immunità', giocata sulla comune radice 'munus', ossia dovere, onere.
La comunità infatti presuppone qualcosa che viene dato con un onere, implica obblighi gli uni verso gli altri; l'immunità richiama all'opposto la volontà di chiamarsi fuori dalla società, l'impossibilità di essere imputabile di qualsiasi dovere verso gli altri. Una posizione mal conciliabile con l'articolo 54 della nostra Costituzione che parla di speciali doveri di disciplina e onore per chi ricopre funzioni pubbliche, ma anche un'ipotesi spazzata via da 25 milioni di voti pochi giorni fa.
Nel discorso sull' etica pubblica, la Spinelli non ha lesinato accuse alla Chiesa, colpevole di assolutizzare alcuni valori, specie sul testamento biologico, relativizzando di conseguenza i restanti e ponendosi come inconscia sentinella di quell' immunitas sostanziale portata avanti da questo governo.
"Essere super partes significa apprendere una morale pubblica che oltrepassa l'interesse di tutti noi, laddove la parola 'interesse' non ha l'accezione sporca che le attribuiamo oggi ma il suo significato originario: scoperta che c'è qualcosa tra l'io e il tu".
Ascoltate queste parole finali, la gente si è alzata e si è rimessa in marcia verso casa. O forse verso la consapevolezza che qualcosa di meglio rispetto a ciò che ha visto finora è davvero dietro l'angolo. Occorrerà molto impegno, etimologicamente 'dare qualcosa a qualcuno'. Guarda caso, ricorda tanto la parola comunità.

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