sabato 9 luglio 2011

Dal basso. A patto di volare alto.

La partecipazione popolare che ha contraddistinto le recenti consultazioni elettorali, quella referendaria in primis, è senza dubbio un segno positivo per la società italiana. È stata giustamente letta come un gesto di protesta verso una classe politica distante dalla gente e contro un modo di occuparsi delle cose pubbliche con scarsa trasparenza.
Appurato questo, bisogna però soffermarsi sullo stato reale della democrazia italiana e su cosa significhi governare un paese nel 2011. Ogni stato moderno che si rispetti necessita di un potere politico competente, organizzato in partiti, da cui vengono eletti i rappresentanti popolari; quanto più la gente sarà informata, tanto più preparati dovrebbero essere gli eletti. Il sistema italiano ha però generato un evidente cortocircuito nel meccanismo di rappresentanza. Una pessima legge elettorale, incentrata su una poco rappresentativa bipolarizzazione e sull'elitarismo delle liste bloccate, ha alzato un recinto in cui la pletorica classe dirigente è arroccata.
Tuttavia il rimedio per ovviare alle storture di questo perverso sistema è discutibile; i cittadini hanno partecipato in massa ai quesiti referendari ma quanto è oggettivamente e socialmente utile la loro opinione su quesiti tecnici? Temi come energia, gestione idrica e giustizia presuppongono una certa preparazione specifica e a elaborare corrette proposte legislative sarebbero chiamati gli eletti. È il compito per il quale sono più che lautamente pagati dall'intera comunità.
Potremmo parlare di iniqua ripartizione di competenze o di abdicazione della politica al suo ruolo di guida. Dire da cosa nasce questo processo è fin troppo semplice: l'Italia è un paese umorale, in cui qualsiasi scontro viene radicalizzato al punto che non si propende per una tesi o per un'altra, ma si "tifa" per l' una o per l'altra fazione. Al contrario è poco radicata nel paese una diffusa preparazione civica; la scarsa lettura dei giornali e in generale l'attitudine storica al clientelismo ne sono testimonianza. Mai hanno attecchito in Italia sistemi di controllo indipendenti dal potere politico, autorità effettivamente slegate da nomine governative. L'intera società è segnata da un'infinita proliferazione di enti in cui conta più l'appartenenza rispetto a competenze specifiche. È il modo subdolo con cui i partiti  controllano e guidano il consenso. La consultazione referendaria, sporadica e solo abrogativa, è un contentino di dubbia utilità generale.
Sarebbe molto più utile una complessiva riforma dell'architettura istituzionale che preveda  una discussione parlamentare di disegni di legge popolari un giorno alla settimana, nonché una completa ridefinizione del sistema di selezione della classe dirigente, ancorandola a trasparenti preferenze.
Solo così la partecipazione sarebbe davvero un fenomeno rilevante e la gente sarebbe incentivata a una continua presa di coscienza quotidiana del bene pubblico.
Finché continuerà a essere tollerata la cultura del privilegio che fa della "casta" un caso unico in Europa, ciò non sarà possibile. Ben venga allora un eventuale referendum sulla sproporzione degli stipendi dei "politici" rispetto alla loro effettiva produttività. Sarà forse utopia, ma è l'unica via credibile per tornare a vedere la luce. Sperando che una nuova classe illuminata riaccenda l'interruttore.

mercoledì 6 luglio 2011

Temporeggio ma non mollo.

I politici di oggi, a guardarli da fuori, fanno quasi tenerezza; arroccati nelle loro aule parlano di cose piccole, fanno compromessi contorti, strategie di lungo termine e leggi personali. Fuori da Montecitorio la società parla un linguaggio completamente diverso. In nessuna epoca storica si ricorda un tale scostamento tra opinione pubblica e rappresentanti del potere. Tralasciando le solite manomissioni legislative del futuro Partito degli Onesti (che coraggio...), guardiamo la maggiore forza di opposizione, quel PD che nella politica del bunga bunga ha apertamente scelto il ruolo dell'eunuco. I fatti dell'ultima settimana hanno smascherato la preoccupante fragilità di uno schieramento appiattito su una linea attendista da Italia calcistica degli anni '60. Catenaccio. Tutti dietro, timidi e mai pungenti, sebbene il pubblico dagli spalti urli di attaccare.
Sbaglia Di Pietro a dire che Bersani ha tradito le promesse elettorali: nel 2008 il programma non l'ha scritto lui, ma un altro segretario, che aveva parlato di "accorpamenti" e non di eliminazione delle province, alla faccia dei tagli alle spese inutili. Veltroni all'epoca sapeva che ci sono fili che non si possono toccare; al di là delle intenzioni sbandierate, i vari feudi locali portano voti e consensi, nonché banali posizioni di piccolo potere. Adesso si parla di una necessaria riflessione sulla ripartizione di competenze, ma sembra più percorribile la tesi dell'attendismo storico di questa "grande forza riformista", incapace in realtà di uscire dal guscio.
Non sono traditori, sono "temporeggiatori". Quanti disegni di legge annunciano?  Stanno lavorando da anni a una riforma della legge elettorale, ma non ne esce mai una. Sulle energie rinnovabili hanno annunciato grandi progetti, puntualmente dispersi dopo la sbornia referendaria. Ironizzano sull' inutilità delle grandi opere del governo, ma poi fanno l'occhiolino a quell'obbrobrio del traforo in Val di Susa.
È questo il paradosso della situazione attuale: mentre la società crea connessioni di ogni tipo che avvicinano le persone, infrangendo barriere, la politica continua a non creare le infrastrutture necessarie per alimentare la ripresa economica di certe aree del paese, pensando invece a follie maestose che sconquassano zone non bisognose di tali interventi. Perché il PD non fa una battaglia seria sui pessimi collegamenti ferroviari da Roma in giù o su un serio ammodernamento della leggendaria Salerno-Reggio Calabria? È inutile attaccare il federalismo leghista se poi non si propone niente per permettere una vera ripresa di chi, per ora, non ha gli strumenti necessari.
E poi ci vogliono segnali veri: Fassino, per dirne uno, non ha ancora lasciato il seggio di deputato, come aveva promesso in campagna elettorale a Torino. Continua a rimandare. Temporeggia. Come tutto il PD.
Intanto però il treno sta passando. E visto che potrebbe essere un TAV, sarà il caso di decidersi. 
Fosse anche solo per liberare i binari. 

lunedì 4 luglio 2011

In una valle di lacrimogeni.

È andata bene. Non la protesta. È andata bene e basta. Siamo andati a un passo dal dover piangere un altro Carlo Giuliani, ma per un fortunato destino ciò non è successo. Trovo perfettamente legittime e razionali le ragioni del movimento No Tav in Val di Susa e credo che la costruzione del nuovo tratto ferroviario sia un immane spreco di denaro pubblico.
Detto ciò, quello che è successo ieri è vergognoso e la colpa ricade su chi ha inopinatamente voluto trasformare un imponente dissenso pacifico in una violenta contrapposizione fisica. Così come a Genova dieci anni fa, gli organizzatori hanno colpe imperdonabili per l'accaduto. Al di là delle ipocrisie di sorta, i responsabili dei cortei sapevano bene come la situazione potesse degenerare da un momento all'altro, ma hanno continuato a soffiare sul fuoco, usando un lessico militare.
Dovevano essere i valsusini in massa a opporsi allo scempio della Tav e invece la loro causa è stata il pretesto per una guerriglia tra poveri, per giunta spesso neanche indigeni.
Scene deprimenti, altro che eroi. Da una parte professionisti dello scontro travestiti da manifestanti, dall'altra forze di polizia totalmente impreparate e mandate allo sbaraglio da uno Stato mai così assente.
I primi, evidentemente senza peccato, pronti a scagliare pietre contro agenti, intenti a loro volta a sparare lacrimogeni ad altezza d'uomo. Era ovvio che sarebbe finita così e fa ancora più male pensare che era prevedibile.
Era interesse di chi voleva delegittimare il movimento fare in modo che la protesta avesse questo risultato. 
Il solito ritornello del "non si può dialogare con gli estremisti" sta già risuonando, stroncando sul nascere qualsiasi civile contrapposizione dialettica sull'opportunità dell'opera. In migliaia si sono coperti il volto e hanno attaccato i poliziotti, definiti "servi del potere" ma in realtà vittime quanto loro del vuoto politico del nostro paese. Colpire loro per colpire lo Stato è un adagio tanto anacronistico quanto superficiale. Ha detto Grillo, senza distinzioni, che i manifestanti sono "eroi". Casini gli ha ribattuto, dicendo che gli eroi sono i poliziotti e gli operai. Fuori strada entrambi. 
Non c'erano eroi in Val di Susa, non ci dovevano essere. In uno Stato normale le manifestazioni non finiscono con inseguimenti nei boschi e lacrimogeni lanciati a caso. In uno Stato normale si prevengono eventuali azioni minacciose senza aspettare di dover reprimere alla cieca; in un paese normale un poliziotto che fa il suo mestiere non è un eroe. È un poliziotto; un cittadino che protesta per i suoi diritti non è un eroe. È un cittadino. Evidentemente però radicalizzare certe contrapposizioni è funzionale al mantenimento di un certo status quo.
A Genova morì un ragazzo di vent'anni per un colpo di pistola sparato da un suo quasi coetaneo. Avevano divise diverse, probabilmente nessuno dei due aveva una chiara percezione di chi fosse il suo "nemico" in quel momento. Carlo Giuliani restò a terra, ucciso. Per mesi non si parlò d'altro, mentre nelle segrete stanze del potere, quelle sì lontane da bombe carta e lacrimogeni, si continuavano a perpetrare ingiustizie sociali d'ogni tipo.
Alberto Perino
Dieci anni dopo non abbiamo evidentemente imparato nulla. Perino, responsabile storico del movimento No Tav, parla di "assedio riuscito". Ingenuità o irresponsabilità? Non si sa. 
Ciò che è chiaro è che in quella valle, tra manifestanti, poliziotti, giornalisti e demagoghi, c'era un'assenza che faceva più rumore di una frana: quella della politica, ossia quell'entità chiamata a mediare tra interessi dissonanti e a proporre una sintesi condivisa. Non una risposta in divisa. Antisommossa e abbandonata a sè stessa.

sabato 2 luglio 2011

Leadershippati.

Per tanti anni si è sentito parlare di personalizzazione della politica, ossia di quel processo che fa sì che ci si identifichi coi leader dei singoli partiti senza curarsi troppo dello schieramento in sè. L'Italia del dopo Tangentopoli ha vissuto sull'eterno referendum tra favorevoli e contrari a Silvio Berlusconi. Il suo ingresso in politica prometteva di cambiare la storia del nostro paese, ma il risultato finale è stato decisamente misero: una classe dirigente sempre più corrotta, professionisti delle poltrone ben ancorati al proprio posto, meritocrazia azzerata e cooptazioni mirate. Il tutto sulla pelle di un popolo la cui sovranità costituzionale suonava sinistramente beffarda di fronte a cotanta arroganza. Formalmente sovrani, sostanzialmente sudditi, i cittadini hanno ultimamente manifestato il loro sdegno per questo modo curioso di intendere gli affari pubblici. Sia chiaro che le colpe di tale deriva sono da estendere all'intera classe parlamentare che ha contraddistinto la recente storia repubblicana. Una parola straniera ha preso piede nel linguaggio politico italiano, stroncando sul nascere le plurime e legittime riflessioni popolari: leadership. Parola ripetuta come un mantra obbligatorio dalle forze in gioco, più preoccupate di trovare un simbolo visivo che una più urgente sintesi concettuale. Così tutti hanno aspettato il demiurgo, il principe machiavellico pronto a risolvere i molteplici problemi all'orizzonte, un qualcuno che fosse capace di trascinare le folle. 

Si è arrivati così alla sovraesposizione dei leader, dalle cui dichiarazioni si giocava il destino di tutti. Leader o meglio padroni fintamente democratici, legittimati da una legge elettorale sconcertante a nominare i rappresentanti di 60 milioni di cittadini. 
Nel PdL si sente spesso ripetere la formula "leadership indiscussa", ossia la perfetta aberrazione della dialettica politica, il completo svuotamento dell'essenza democratica. Dall'altra parte invece la discussione è stata ben più accesa, ma ha per lo più riguardato lotte di potere interne e non un reale scontro su visioni diverse.
Sto leggendo un libro molto interessante di Antonio Vitullo, filosofico esperto di marketing , che distrugge il concetto di leadership. Il titolo è fortemente simbolico: "Leadershit". L'idea di fondo è quella di rottamare la mistica del capo che indica la via ai propri seguaci per cambiarla con una più razionale presa di coscienza collettiva che renda più orizzontale l'intera società. "C'è tanto oggi sotto i nostri occhi. È importante riuscire ad andare oltre le solite parole. Leader, leadership, modelli per organizzare e farsi organizzare dal mondo, retoriche e mitologie che ci avvolgono come un velo sottile a confondere e coprire altri punti di vista sulla realtà".
In un mondo in cui diventa sempre più facile acquisire conoscenze, l'idea weberiana del potere carismatico appare sempre più anacronistica. È finito il tempo dei plebisciti e delle investiture. Meglio investire su se stessi e smettere l'abito da "fan". È ora di pensare con la propria testa, di cercare nuove strade, senza farsi etichettare in via pregiudiziale.
Questa sarebbe l'alba di una vera res publica. 

venerdì 1 luglio 2011

Censure in vista.





Come sapete il 6 luglio l’AgCom voterà una delibera con cui si arrogherà il potere di oscurare siti internet stranieri e di rimuovere contenuti da quelli italiani, in modo arbitrario e senza il vaglio del giudice.
Cosa si può fare?
  • Andare alla pagina di Agorà Digitale in cui sono raccolti tutti i link, le iniziative e le proposte dei cittadini;
  • Firmare e diffondere la petizione sul sito di Avaaz.
  • Partecipare e invitare tutti i tuoi amici a “La notte della rete", dal 5 luglio sera: quattro ore no-stop in cui si alterneranno cittadini e associazioni in difesa del web, politici, giornalisti, cantanti, esperti.
  • Partecipare a una delle manifestazioni che si stanno a preparando a Roma e indiverse città.
Se sei un blogger infine scrivi un post, usando il logo sopra e riportando i link

(Ripreso da altri blog della rete)

mercoledì 29 giugno 2011

Morire un giorno a Roma.

Alberto Bonanni
Alberto Bonanni era un musicista. Aveva 29 anni. Sabato era andato a sentire un po' di musica dal vivo in un  locale del rione Monti a Roma. All' uscita viene apostrofato da un abitante della zona, un signore poco tollerante riguardo alle emissioni sonore del pub. Pochi minuti dopo Alberto è a terra, in un lago di sangue, oggetto di una violenza che verrà rubricata come "futili motivi", ma che in realtà trova origine da cause davvero spaventose. Chi lo ha colpito in quella strada non aveva una reale motivazione, forse neanche quella tanto citata sui giornali del "segnare il territorio".
Chi ha ucciso questo ragazzo non aveva di meglio da fare in quel momento. Questa è la futile e tragica verità, di fronte alla quale adesso piangiamo. Non serve strumentalizzare una fazione politica per una poco riuscita operazione sicurezza. Non serve a niente adesso lanciare accuse o ricordare quello che veniva promesso in campagna elettorale. Però abbiamo il dovere di capire cosa spinge un ragazzo a scatenare una rissa, a risolvere i conti o quello che è, colpendo l'altra persona, simulandone l'eliminazione fisica o addirittura compiendola. Di tutte le dichiarazioni stereotipate e idiote che sono seguite a questo episodio, una sola, credo, sia andata nella direzione giusta; l'ha fatta Zingaretti, presidente della Provincia di Roma, parlando della "necessità di mettere in atto una controffensiva culturale e sociale". Esatto, questo è il problema vero.
Tempo fa in un locale notturno, un ragazzo evidentemente su di giri mi stava per "menare". Alla mia richiesta di spiegazioni, si è ulteriormente agitato. Poi si è calmato, dicendomi che si scusava: "Ahò fratè, sto fatto. Devo mettere le mani addosso a qualcuno!". 
Mi ha fatto pena, perché nei suoi occhi c'era il vuoto di chi sapeva che non c'era niente di meglio, niente di più emozionante da fare in quella sera. Il giorno dopo avrebbe raccontato agli amici della sua bravata, accompagnando la sua descrizione di cruda virilità con gesti già visti, espressioni già sentite. Banali. Vuote. Quando si parla di quei giovani che si sono ribellati al sistema politico attuale e all'idea di una politica delegata e lontana, non bisogna dimenticarsi che c'è ancora una periferia sociale sempre più estesa, rassegnata, molto propensa a tirare un cazzotto e poco a fermarsi a pensare. Senza capire che sta facendosi più male di quanto riesca a causarne. Per questo serve una politica che accolga, senza strumentalizzazioni; che ascolti, senza urlare alla luna.
E anche che si guardi un po' più intorno. Scendendo da un'auto blu e facendosi due passi in giro. Questo sarebbe "stare sul territorio". Non alzare la saracinesca di una sterile sede di partito.
Quanto a te, Alberto, riposa in pace. Magari da un'altra parte sarà tutt' altra musica. 

domenica 26 giugno 2011

Pino Maniaci, un giornalista scomodo.

Pino Maniaci a Telejato
Come ho detto qualche giorno fa questo blog si propone di essere un laboratorio per elaborare una visione del futuro positiva e propositiva. Per guardare avanti bisogna anche sapere cosa ci si lascia indietro, perché come diceva Ippolito "chi conosce il passato è padrone del futuro". Ci sono situazioni che non conosciamo, che non abbiamo vissuto o di cui abbiamo solo sentito parlare. Qualche giorno fa, una ragazza di Trapani mi ha parlato di Pino Maniaci, un giornalista non riconosciuto dall'Ordine,  proprietario della coraggiosa Telejato,  piccola rete siciliana che combatte mediaticamente la mafia facendo nomi e cognomi in terre dove troppo spesso ha regnato l'omertà.
Nel suo sguardo c'è una fierezza risorgimentale e le sue parole sono pietre per i moderni latifondisti mafiosi. 
Quella di Pino è una storia paradossale, un tentativo di imbavagliare e far tacere una terra che ha un sacrosanto bisogno di urlare. Lui, giornalista di denuncia, viene denunciato. Per cavilli. Dai suoi "colleghi".
Dopo aver pubblicato "Il coraggio di scrivere la verità" di Brecht, mi sembra giusto parlare di chi cerca questa benedetta verità ogni giorno in una piccola tv privata, rischiando la vita e inaspettatamente anche il lavoro.
Non voglio però rubare spazio alle parole di Maria Grazia, la ragazza che mi ha parlato di lui e che lo descrive splendidamente.



Pino Maniaci
Leggendo le parole di Brecht mi viene in mente un esempio lampante di quell'uomo impalpabile e surreale che egli descrive. Si chiama Pino Maniaci ed io ho avuto la fortuna di conoscerlo.
Un uomo che ha come unico obiettivo l'educazione. L'educazione a una cultura antimafiosa, mosca bianca nella Partinico di ieri, germoglio vigoroso nella Partinico di oggi.
Pino, così si fa chiamare da tutti, grandi e piccoli, potenti e non, è il direttore di Telejato. Conduce un telegiornale con una mission ben precisa: la derisione costante e l'irriverenza totale nei confronti della mafia. Pino lotta in prima linea con la sua telecamera, pronto a riprendere le immagini degli arresti dei potenti, quelle immagini che vediamo nei tg nazionali, cedendole a costo zero e arricchendosi di gioia ogni qual volta un potere venga sventrato.
Ed è questa gioia che gli dà la forza di continuare a lottare. Inutile dire che abbia ricevuto fiumi di minacce, subito aggressioni fisiche e visto qualche auto bruciare, ma questo è il prezzo che devi pagare se vuoi davvero lottare contro i potenti. La sua storia è il prosieguo di una storia conosciuta in tutta Italia: quella dei cento passi. E se non vi fosse bastata la descrizione fatta finora, aggiungo che Pino Maniaci ha dovuto subire la denuncia di esercizio abusivo della professione, perchè non iscritto all'Ordine dei giornalisti.
Come se gli abusivi non fossero i vari Fede, Vespa e Minzolini in questo povero giornalismo italiano."Dispiacere ai possidenti significa rinunciare al possesso". Lui l'ha fatto. 


"Siamo tutti Pino Maniaci", cantilenano i suoi sostenitori.
Chapeau.

                                                                                                              Maria Grazia Culcasi