La partecipazione popolare che ha contraddistinto le recenti consultazioni elettorali, quella referendaria in primis, è senza dubbio un segno positivo per la società italiana. È stata giustamente letta come un gesto di protesta verso una classe politica distante dalla gente e contro un modo di occuparsi delle cose pubbliche con scarsa trasparenza.
Appurato questo, bisogna però soffermarsi sullo stato reale della democrazia italiana e su cosa significhi governare un paese nel 2011. Ogni stato moderno che si rispetti necessita di un potere politico competente, organizzato in partiti, da cui vengono eletti i rappresentanti popolari; quanto più la gente sarà informata, tanto più preparati dovrebbero essere gli eletti. Il sistema italiano ha però generato un evidente cortocircuito nel meccanismo di rappresentanza. Una pessima legge elettorale, incentrata su una poco rappresentativa bipolarizzazione e sull'elitarismo delle liste bloccate, ha alzato un recinto in cui la pletorica classe dirigente è arroccata.
Tuttavia il rimedio per ovviare alle storture di questo perverso sistema è discutibile; i cittadini hanno partecipato in massa ai quesiti referendari ma quanto è oggettivamente e socialmente utile la loro opinione su quesiti tecnici? Temi come energia, gestione idrica e giustizia presuppongono una certa preparazione specifica e a elaborare corrette proposte legislative sarebbero chiamati gli eletti. È il compito per il quale sono più che lautamente pagati dall'intera comunità.
Potremmo parlare di iniqua ripartizione di competenze o di abdicazione della politica al suo ruolo di guida. Dire da cosa nasce questo processo è fin troppo semplice: l'Italia è un paese umorale, in cui qualsiasi scontro viene radicalizzato al punto che non si propende per una tesi o per un'altra, ma si "tifa" per l' una o per l'altra fazione. Al contrario è poco radicata nel paese una diffusa preparazione civica; la scarsa lettura dei giornali e in generale l'attitudine storica al clientelismo ne sono testimonianza. Mai hanno attecchito in Italia sistemi di controllo indipendenti dal potere politico, autorità effettivamente slegate da nomine governative. L'intera società è segnata da un'infinita proliferazione di enti in cui conta più l'appartenenza rispetto a competenze specifiche. È il modo subdolo con cui i partiti controllano e guidano il consenso. La consultazione referendaria, sporadica e solo abrogativa, è un contentino di dubbia utilità generale.
Sarebbe molto più utile una complessiva riforma dell'architettura istituzionale che preveda una discussione parlamentare di disegni di legge popolari un giorno alla settimana, nonché una completa ridefinizione del sistema di selezione della classe dirigente, ancorandola a trasparenti preferenze.
Solo così la partecipazione sarebbe davvero un fenomeno rilevante e la gente sarebbe incentivata a una continua presa di coscienza quotidiana del bene pubblico.
Finché continuerà a essere tollerata la cultura del privilegio che fa della "casta" un caso unico in Europa, ciò non sarà possibile. Ben venga allora un eventuale referendum sulla sproporzione degli stipendi dei "politici" rispetto alla loro effettiva produttività. Sarà forse utopia, ma è l'unica via credibile per tornare a vedere la luce. Sperando che una nuova classe illuminata riaccenda l'interruttore.