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mercoledì 6 luglio 2011

Temporeggio ma non mollo.

I politici di oggi, a guardarli da fuori, fanno quasi tenerezza; arroccati nelle loro aule parlano di cose piccole, fanno compromessi contorti, strategie di lungo termine e leggi personali. Fuori da Montecitorio la società parla un linguaggio completamente diverso. In nessuna epoca storica si ricorda un tale scostamento tra opinione pubblica e rappresentanti del potere. Tralasciando le solite manomissioni legislative del futuro Partito degli Onesti (che coraggio...), guardiamo la maggiore forza di opposizione, quel PD che nella politica del bunga bunga ha apertamente scelto il ruolo dell'eunuco. I fatti dell'ultima settimana hanno smascherato la preoccupante fragilità di uno schieramento appiattito su una linea attendista da Italia calcistica degli anni '60. Catenaccio. Tutti dietro, timidi e mai pungenti, sebbene il pubblico dagli spalti urli di attaccare.
Sbaglia Di Pietro a dire che Bersani ha tradito le promesse elettorali: nel 2008 il programma non l'ha scritto lui, ma un altro segretario, che aveva parlato di "accorpamenti" e non di eliminazione delle province, alla faccia dei tagli alle spese inutili. Veltroni all'epoca sapeva che ci sono fili che non si possono toccare; al di là delle intenzioni sbandierate, i vari feudi locali portano voti e consensi, nonché banali posizioni di piccolo potere. Adesso si parla di una necessaria riflessione sulla ripartizione di competenze, ma sembra più percorribile la tesi dell'attendismo storico di questa "grande forza riformista", incapace in realtà di uscire dal guscio.
Non sono traditori, sono "temporeggiatori". Quanti disegni di legge annunciano?  Stanno lavorando da anni a una riforma della legge elettorale, ma non ne esce mai una. Sulle energie rinnovabili hanno annunciato grandi progetti, puntualmente dispersi dopo la sbornia referendaria. Ironizzano sull' inutilità delle grandi opere del governo, ma poi fanno l'occhiolino a quell'obbrobrio del traforo in Val di Susa.
È questo il paradosso della situazione attuale: mentre la società crea connessioni di ogni tipo che avvicinano le persone, infrangendo barriere, la politica continua a non creare le infrastrutture necessarie per alimentare la ripresa economica di certe aree del paese, pensando invece a follie maestose che sconquassano zone non bisognose di tali interventi. Perché il PD non fa una battaglia seria sui pessimi collegamenti ferroviari da Roma in giù o su un serio ammodernamento della leggendaria Salerno-Reggio Calabria? È inutile attaccare il federalismo leghista se poi non si propone niente per permettere una vera ripresa di chi, per ora, non ha gli strumenti necessari.
E poi ci vogliono segnali veri: Fassino, per dirne uno, non ha ancora lasciato il seggio di deputato, come aveva promesso in campagna elettorale a Torino. Continua a rimandare. Temporeggia. Come tutto il PD.
Intanto però il treno sta passando. E visto che potrebbe essere un TAV, sarà il caso di decidersi. 
Fosse anche solo per liberare i binari. 

sabato 2 luglio 2011

Leadershippati.

Per tanti anni si è sentito parlare di personalizzazione della politica, ossia di quel processo che fa sì che ci si identifichi coi leader dei singoli partiti senza curarsi troppo dello schieramento in sè. L'Italia del dopo Tangentopoli ha vissuto sull'eterno referendum tra favorevoli e contrari a Silvio Berlusconi. Il suo ingresso in politica prometteva di cambiare la storia del nostro paese, ma il risultato finale è stato decisamente misero: una classe dirigente sempre più corrotta, professionisti delle poltrone ben ancorati al proprio posto, meritocrazia azzerata e cooptazioni mirate. Il tutto sulla pelle di un popolo la cui sovranità costituzionale suonava sinistramente beffarda di fronte a cotanta arroganza. Formalmente sovrani, sostanzialmente sudditi, i cittadini hanno ultimamente manifestato il loro sdegno per questo modo curioso di intendere gli affari pubblici. Sia chiaro che le colpe di tale deriva sono da estendere all'intera classe parlamentare che ha contraddistinto la recente storia repubblicana. Una parola straniera ha preso piede nel linguaggio politico italiano, stroncando sul nascere le plurime e legittime riflessioni popolari: leadership. Parola ripetuta come un mantra obbligatorio dalle forze in gioco, più preoccupate di trovare un simbolo visivo che una più urgente sintesi concettuale. Così tutti hanno aspettato il demiurgo, il principe machiavellico pronto a risolvere i molteplici problemi all'orizzonte, un qualcuno che fosse capace di trascinare le folle. 

Si è arrivati così alla sovraesposizione dei leader, dalle cui dichiarazioni si giocava il destino di tutti. Leader o meglio padroni fintamente democratici, legittimati da una legge elettorale sconcertante a nominare i rappresentanti di 60 milioni di cittadini. 
Nel PdL si sente spesso ripetere la formula "leadership indiscussa", ossia la perfetta aberrazione della dialettica politica, il completo svuotamento dell'essenza democratica. Dall'altra parte invece la discussione è stata ben più accesa, ma ha per lo più riguardato lotte di potere interne e non un reale scontro su visioni diverse.
Sto leggendo un libro molto interessante di Antonio Vitullo, filosofico esperto di marketing , che distrugge il concetto di leadership. Il titolo è fortemente simbolico: "Leadershit". L'idea di fondo è quella di rottamare la mistica del capo che indica la via ai propri seguaci per cambiarla con una più razionale presa di coscienza collettiva che renda più orizzontale l'intera società. "C'è tanto oggi sotto i nostri occhi. È importante riuscire ad andare oltre le solite parole. Leader, leadership, modelli per organizzare e farsi organizzare dal mondo, retoriche e mitologie che ci avvolgono come un velo sottile a confondere e coprire altri punti di vista sulla realtà".
In un mondo in cui diventa sempre più facile acquisire conoscenze, l'idea weberiana del potere carismatico appare sempre più anacronistica. È finito il tempo dei plebisciti e delle investiture. Meglio investire su se stessi e smettere l'abito da "fan". È ora di pensare con la propria testa, di cercare nuove strade, senza farsi etichettare in via pregiudiziale.
Questa sarebbe l'alba di una vera res publica. 

giovedì 2 giugno 2011

Il Grillo straparlante.

Beppe Grillo.
Chi genera movimento inevitabilmente immette caos in un sistema stabile. Solo che a volte i risultati non sono quelli sperati e il dinamico tentativo di originare un ordine diverso delle cose si riduce a una confusa sparatoria alla luna.
Beppe Grillo è una persona che ha avuto un progetto lodevole; il suo blog ha raccolto tante voci dimenticate, ha sostenuto progetti importanti fino all'idea di far nascere un soggetto politico lontano da logiche partitiche e fondato sul semplice associazionismo civico. Il Movimento 5 stelle ha preso vita dandosi un programma, misurandosi su idee e non su ideologie, ed urlando nelle piazze la propria distanza dalla politica mercenaria. Dice Grillo che "se togli i soldi alla politica resta la passione, se metti i soldi nella politica resteranno solo quelli"; tesi sommaria e condivisibile in un certo senso; ma allora perché un comico che offre uno spettacolo di un paio d'ore, non lo presenta come servizio ricreativo o divulgativo nelle piazze e invece fissa il biglietto d'ingresso a cifre proibitive per gran parte della popolazione? Non troppo democratico nè partecipativo, mi sembra.
Perché quel comico una volta rompeva i computer sul palco in segno di dissenso totale verso un mondo votato ad un vuoto progresso tecnologico e ora vede la rete di Internet come l'unica salvezza dell'umanità?
Grillo in un Vaffa-day.
Ha cambiato idea e non c'è niente di male in sè nel farlo; purtroppo però, col passare del tempo, Grillo ha dato al movimento una caratterizzazione sempre più giacobina, insistendo più sulla rivendicazione di una pura e incontaminata alterità del suo movimento, eccedendo nel livore senza evolversi nelle proposte. 
In ogni caso il riscontro elettorale è stato positivo, in alcuni casi (vedi il 10% di Bologna) eccezionale; l'ingresso nei consigli comunali dei suoi giovani seguaci è un fatto positivo che tuttavia lascia spazio a un dubbio: come faranno i suoi esponenti a realizzare progetti e a farli approvare mentre il loro leader continuerà nella sua totale intransigenza verso qualsiasi attore politico e sputerà veleno sul famigerato sistema? Del resto la politica è nella sua accezione più nobile l'arte del compromesso e non si capisce perché questo debba sempre essere visto come uno scadimento e non come un'elevazione dell'interesse pubblico. I recenti attacchi del poliedrico personaggio genovese alla sinistra sono una sua strategia di posizionamento proprio in quel sistema tanto vituperato; Grillo sa che Berlusconi è a fine corsa e adesso ha bisogno di un nemico nuovo: lo ha individuato nella partitocrazia in senso indiscriminato, concentrandosi sul Pd perché probabilmente sarà il prossimo partito al governo. Gli attacchi gratuiti a Pisapia attraverso la storpiatura del nome, innovativa tecnica comica usata persino da quel giullare che conduce il Tg4, l'oscuramento totale della notizia del plebiscito per l'ex amico De Magistris e la solita litania qualunquista, fanno pensare a un Grillo spiazzato da un tale entusiasmo popolare verso figure che non avevano la certificazione di purezza 5 stelle. Eppure hanno vinto, hanno ridato speranze e creato aspettative: i partiti sono stati strumenti e non attori protagonisti. 
Dal suo blog continuerà senz'altro a lanciare strali erga omnes e spesso saranno pretestuosi; continuerà a mostrare le violenze sugli indignados dimenticando che Pisapia era stato anche l'avvocato della memoria di Carlo Giuliani, si batterà per i referendum, scordandosi che nelle piazze festose di lunedì si parlava tanto anche di questo. Il movimento è vorticoso, si sa: le ragioni dei ragazzi restano, qui come in Spagna.
I demagoghi invece sono solo provvisori. E inutili, come diceva Pericle.

lunedì 30 maggio 2011

Venti ed eventi travolgenti.

Pisapia, sindaco di Milano.
Era nell'aria. Forse non eravamo consci di quanto fossero forti queste folate e dubitavamo del fatto che un generico  dissenso potesse trasformarsi in un risultato elettorale così chiaro. Da mesi le piazze venivano riempite da manifestazioni che contestavano il governo;  la convinta celebrazione popolare dell'unità d'Italia opposta allo scetticismo leghista e la presa di coscienza delle donne italiane, sfociata nell'oceanica adunata dello scorso febbraio, sono solo gli esempi più eclatanti.  
La discesa in campo di Berlusconi nel '94 aveva generato entusiasmi trasversali; un imprenditore di successo, così lontano nei modi e nel percorso personale da quella vetusta classe dirigente della Prima repubblica, aveva illuso una popolazione storicamente avvezza ad affidarsi a una figura forte ed apparentemente innovativa nei momenti più cupi. E' durato molto l'idillio, seppur contraddistinto da fisiologici alti e bassi: una consistente parte del paese ha avuto una fiducia quasi incrollabile nei suoi confronti, perdonandogli una perenne asimmetria tra promesse e risultati effettivi. D'altra parte l'alternativa era latitante: una sinistra litigiosa, incapace di far convergere in una posizione unitaria la sua complessa dialettica interna, ha steso il tappeto rosso per anni al berlusconismo. La confusione del centrosinistra ha allontanato un elettorato che pretendeva risposte chiare a problemi specifici; così la semplicistica narrazione politica del PdL ha affascinato cittadini smarriti, poco propensi a seguire le diatribe dello schieramento opposto. I guai giudiziari e personali del premier non sembravano scalfire il generale consenso attorno alla sua coalizione, sospinta da una Lega capace di cavalcare la volontà di arroccamento settentrionale, sia verso il centralismo romano, sia verso le ondate migratorie. 
Il politologo Lazar diceva che Berlusconi e i suoi avevano vinto una guerra di valori; ed è proprio da una repentina svolta valoriale che è nata questa rivoluzione di maggio. In presenza di una situazione economica sempre più precaria, la gente ha trovato rivoltante l'approccio volgare e offensivo dell'ultima campagna elettorale: non ha più riso alle barzellette misogine di un presidente lontano anni luce dai problemi di una società evoluta, consapevole e indignata. I suoi candidati non hanno dato risposte, mettendo in piedi una cervellotica campagna fondata sull'odio e non sulla proposta. Stavolta gli italiani si sono ribellati a questa deriva civile: lo hanno fatto stringendosi intorno alla moderazione di Napolitano, ritrovando i suoi toni pacati nella positività di Pisapia e la sua rettitudine in Luigi De Magistris,  uomo proveniente da quella magistratura tanto derisa a destra; hanno sentito il bisogno di legalità, diffidando delle oscure collusioni di Lettieri a Napoli; hanno capito l'irreversibilità del processo multietnico, sbarazzandosi dello strisciante razzismo della Moratti a Milano; in generale hanno apprezzato un modo di fare politica diverso, una politica partecipata, fatta di primarie e presenza territoriale.
De Magistris e la festa di Napoli.
Così la sinistra ha colmato il gap mediatico, coinvolgendo e dando speranza a un popolo stanco di delegare. Così ha vinto e così dovrà governare, sfruttando questo ritrovato entusiasmo, senza smettere di ascoltare la sua base allargata. Le aspettative create non possono essere disattese. Sarebbe imperdonabile.  

giovedì 26 maggio 2011

Ladri di parole.

Il parlamento.
Diceva Kipling che le parole sono la più potente droga usata dal genere umano; Hugo le definiva "passanti misteriosi dell'anima". La politica dal canto suo è anche persuasione e la terminologia usata dai suoi attori ha segnato i loro percorsi. Come avevamo visto qualche giorno fa, il termine "partito" implica di per sè già una chiara scelta di campo, presupponendo la volontà di schierarsi, da una parte o dall'altra. La loro crisi è in parte attribuibile alla liquidità dei nostri tempi, ad una precarizzazione delle ideologie unita ad una diffusa insofferenza verso l'indottrinamento.
Certamente i partiti non sono più quei pachidermici apparati di qualche decennio fa, ma mantengono una sostanziale ipocrisia nel loro modo di porsi. La loro arroganza emerge dai nomi stessi degli schieramenti; la comunicazione politica è stata rivoluzionata dal carattere frenetico della nostra società, dalla necessità di attirare l'attenzione attraverso slogan ed espressioni brevi e significative. Tuttavia ciò non giustifica il furto di parole perpetrato dalla politica italiana; prendiamo ad esempio il termine più ricorrente dell'onomastica partitica: libertà; un concetto per il quale intere generazioni hanno lottato al fine di rendelo universale e su cui nessuna forza democratica dovrebbe mettere il cappello; invece una dilagante demagogia ha permesso che, non solo il monocratico partito attualmente al governo ne facesse uso, ma che fazioni politiche di diversa estrazione se ne attribuissero il titolo: Futuro e Libertà a destra, Sinistra Ecologia e Libertà dalla parte opposta. Senza dilungarsi su anacronistiche analisi storiche dei due schieramenti, appare comunque discutibile l'idea di segnare il proprio territorio usando parole che dovrebbero appartenere al patrimonio culturale e lessicale di tutto il Paese. La ragione di questa ricerca di sensazionalismo negli appellativi  trova spiegazione nella fragilità del nostro sistema politico, costantemente incapace di trovare una qualsiasi stabilità e sempre pronto a inseguire l'umore popolare; è pratica diffusa quella di cercare nomi e acronimi politici attraverso ricerche di mercato, cercando quelli che suonano meglio, senza curarsi troppo di riempire di significato quelle parole. E' cosi anche nel centrosinistra, che dopo aver esplorato tutti i campi della botanica, ha ripiegato sull'aggettivo democratico, nella speranza americaneggiante di "bipolarizzare" la contesa e scegliendo di fatto di emarginare voci provenienti da forze concettualmente contigue.
C'è chi poi come Di Pietro ha messo in primo piano i "valori"; probabilmente i suoi elettori avrebbero voluto sapere a quali si riferisse quando ha fatto eleggere Scilipoti in parlamento. E proprio il Danny De Vito di Montecitorio ha coniato per il suo sparuto gruppo di tardivi sostenitori del governo una denominazione originale: i Responsabili. E del resto come appellare in altro modo persone che hanno così a cuore la cosa pubblica? L'hanno fatto per amore della nazione, dicono. Le poltrone piovute dopo sono la naturale conseguenza di cotanto patriottismo.
Già,la patria: sembra che il prossimo nome del Pdl non sarà "Partito dell'amore": il marchio fu registrato dai sostenitori di Moana negli anni '90 ed è inutilizzabile; pare che si chiamerà semplicemente "Italia". Ecco, adesso ho un po' di nostalgia della Prima Repubblica: almeno lì le cose si chiamavano col loro nome.

martedì 24 maggio 2011

Le risposte primarie.

Correva l'anno 1492. Un condottiero genovese salpato da Palos de la Frontera con un equipaggio complessivo di 120 uomini, suddiviso in tre caravelle, sbarcò incidentalmente su una terra sconosciuta; stava cercando la via più breve per le Indie, ma sbagliò qualcosa; un suo marinaio, l'andaluso Rodrigo de Triana, fu il primo ad avvistare terra: Cristoforo Colombo aveva appena scoperto l'America. Fu un imprevisto, un perfetto esempio di quello che in filosofia si chiama eterogenesi dei fini: il fare qualcosa con l'intento di raggiungere uno scopo e poi, sorprendentemente, conseguire un risultato addirittura migliore.
Ricorda qualcosa: la recente storia del PD. Il meccanismo delle primarie ha superato l'intento del partito stesso; dovevano essere sostanzialmente investiture per i candidati imposti dal partito e invece le sorprese sono arrivate ovunque: i vendoliani Pisapia e Zedda, l'ex pm dell'Idv De Magistris, per non parlare di Renzi  a Firenze, hanno sbaragliato le scelte verticali della segreteria nazionale e aggregato un consenso insperato.
E così quel PD che cercava la sua rotta, scervellandosi su come abbattere il potere berlusconiano e molto propenso a cercare i voti necessari al centro, si è trovato fra le mani le risposte. 
I suddetti candidati hanno interpretato un desiderio di cambiamento che la classe dirigente democratica non aveva saputo intercettare; in molti sondaggi è emerso come l'elettorato di sinistra tollerasse sempre meno vedere le stesse facce al comando e la perenne litigiosità interna allo schieramento.
Le primarie hanno salvato un partito, che ha avuto comunque il merito e l'umiltà di rimettersi al giudizio effettivo dei suoi sostenitori prima di sottoporsi al voto popolare. Quando la sinistra ha smesso di inseguire il PDL sul piano individuale, ossia quando ha smesso di cercare una figura carismatica che potesse competere con la monocrazia mediatica del premier, ha cominciato a ritrovarsi; sul manifesto elettorale di Bersani campeggiava la scritta "Oltre": sperava di sorpassare il berlusconismo, ma i risultati del primo turno hanno oltrepassato  strategie e disegni del partito stesso.
E' un segnale che deve essere ricordato nelle prossime consultazioni: lontano dai salotti, a rispettosa distanza dalle chiese, quartiere per quartiere, senza lasciare nessuno indietro, la sinistra italiana può vincere. Senza ricorrere al "papa straniero", senza aspettare che sia la giustizia a toglierle il gusto della vittoria.

venerdì 20 maggio 2011

Gente in movimento.

"Se non ci lasciate sognare, non vi faremo dormire". Così recita uno degli innumerevoli cartelli esposti alla Puerta del Sol di Madrid, crocevia della protesta che da domenica scorsa anima le piazze di oltre 60 città spagnole. I giovani manifestanti si sono organizzati tramite i social network e hanno occupato gli spazi pubblici per catalizzare l'attenzione sulla drammatica situazione di un paese dove la disoccupazione giovanile e il precariato hanno superato il livello di guardia. Si sono ribattezzati Movimiento 15-M, prendendo spunto dal giorno iniziale della mobilitazione, quel 15 maggio che anche in Italia potrebbe aver assunto forte valore simbolico. Chiedono vera democrazia da subito (Democracia real ya è il loro slogan) e per ottenerla sono pronti a lottare, come quei ragazzi a piazza Tahrir, come gli studenti in Iran o come le masse che hanno messo in fuga Ben Ali in Tunisia. Minimo comune denominatore è il desiderio di libertà, ma non solo; la parola 'movimento' implica un'idea di dinamismo che il termine 'partito' non ha; sottintende una struttura orizzontale che permette il reale coinvolgimento di chi si è sentito chiudere in faccia tante porte, spesso dalle stesse forze politiche tradizionali, ancorate su rigide organizzazioni verticali e percepite sempre più distanti. I partiti hanno puntato molto sulla personalizzazione mediatica della politica, ma la crisi di rigetto è tutta lì da vedere: richieste di referendum, piazze in agitazione, impegno per una democrazia non delegata, dimostrano la diffusa volontà di non farsi più rappresentare passivamente da pochi oligarchi-imbonitori. L'aspettativa per un deus ex machina pronto a risolvere problemi collettivi lascia spazio al naturale impulso ad aggregarsi di tante teste che, consapevoli di attraversare una fase storica complicata, si danno forza reciprocamente, senza idoli da adorare.
Il successo elettorale del Movimento 5 stelle ha le stesse fondamenta, pur distinguendosi per la presenza di un capopopolo ben riconoscibile; il suo successo starà paradossalmente nella capacità del suo creatore a diventare sempre più invisibile e a lasciare che siano i suoi seguaci a "movimentare" la statica scena italiana. In ogni caso i partiti tradizionali sono avvisati: quelli che 'non prendono parte' sono, sempre meno, 'gli indifferenti' odiati da Gramsci e, sempre più spesso, individui in movimento. Solo programmi seri e risposte concrete li indurranno a fermarsi da qualche parte.   

mercoledì 18 maggio 2011

Dal basso senza imposizioni.

Riflessioni sulla rinascita del centrosinistra: innanzitutto conta sempre meno il centro e sempre più la sinistra, non quella anacronistica, legata a simboli e strumenti di un mondo che non c'è più, ma quella che cerca di coinvolgere, di aggregare senza indulgere ai conti della serva nella ricerca dei voti e guardando in faccia chi si è sentito abbandonato.
E' rinato il PD? Non ancora. Lo farà se capirà che i Pisapia, i De Magistris o Zedda a Cagliari sono candidati voluti dal basso, lontani da nomine del partito, capaci anche per questo di smarcarsi dalle beghe di una politica nazionale ancora troppo vaga. Napoli docet.
L'insuccesso di Berlusconi e del suo modo di fare politica è inequivocabile; dopo anni di torpore, l'elettorato non si fida più di delegare tutto a una persona che solo a parole è "l'uomo forte", ma che nei fatti è incapace di gestire la complessità della modernità. E' un autocrate, propenso a circondarsi di burattini e sollazzatrici, convinto di poter sistemare tutto con una battuta o una nomina. Non basta più. Dare incarichi di governo ai Responsabili (?) è stata la goccia finale.
Presto avrà da fronteggiare anche una sempre più sterile Lega, che, appena ha provato a fare il partito di governo smettendo gli abiti del partito di lotta, è stata bastonata dalla sua base.
E i grillini? Il loro successo specula molto sul diffuso sdegno popolare, il loro approccio innovativo cozza però col paradossale unilateralismo del loro leader; la politica è confronto, l'indottrinamento è integralismo.
Ah, dimenticavo: il Pdl perde a Olbia e ad Arcore: ospite sgradito?