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mercoledì 6 luglio 2011

Temporeggio ma non mollo.

I politici di oggi, a guardarli da fuori, fanno quasi tenerezza; arroccati nelle loro aule parlano di cose piccole, fanno compromessi contorti, strategie di lungo termine e leggi personali. Fuori da Montecitorio la società parla un linguaggio completamente diverso. In nessuna epoca storica si ricorda un tale scostamento tra opinione pubblica e rappresentanti del potere. Tralasciando le solite manomissioni legislative del futuro Partito degli Onesti (che coraggio...), guardiamo la maggiore forza di opposizione, quel PD che nella politica del bunga bunga ha apertamente scelto il ruolo dell'eunuco. I fatti dell'ultima settimana hanno smascherato la preoccupante fragilità di uno schieramento appiattito su una linea attendista da Italia calcistica degli anni '60. Catenaccio. Tutti dietro, timidi e mai pungenti, sebbene il pubblico dagli spalti urli di attaccare.
Sbaglia Di Pietro a dire che Bersani ha tradito le promesse elettorali: nel 2008 il programma non l'ha scritto lui, ma un altro segretario, che aveva parlato di "accorpamenti" e non di eliminazione delle province, alla faccia dei tagli alle spese inutili. Veltroni all'epoca sapeva che ci sono fili che non si possono toccare; al di là delle intenzioni sbandierate, i vari feudi locali portano voti e consensi, nonché banali posizioni di piccolo potere. Adesso si parla di una necessaria riflessione sulla ripartizione di competenze, ma sembra più percorribile la tesi dell'attendismo storico di questa "grande forza riformista", incapace in realtà di uscire dal guscio.
Non sono traditori, sono "temporeggiatori". Quanti disegni di legge annunciano?  Stanno lavorando da anni a una riforma della legge elettorale, ma non ne esce mai una. Sulle energie rinnovabili hanno annunciato grandi progetti, puntualmente dispersi dopo la sbornia referendaria. Ironizzano sull' inutilità delle grandi opere del governo, ma poi fanno l'occhiolino a quell'obbrobrio del traforo in Val di Susa.
È questo il paradosso della situazione attuale: mentre la società crea connessioni di ogni tipo che avvicinano le persone, infrangendo barriere, la politica continua a non creare le infrastrutture necessarie per alimentare la ripresa economica di certe aree del paese, pensando invece a follie maestose che sconquassano zone non bisognose di tali interventi. Perché il PD non fa una battaglia seria sui pessimi collegamenti ferroviari da Roma in giù o su un serio ammodernamento della leggendaria Salerno-Reggio Calabria? È inutile attaccare il federalismo leghista se poi non si propone niente per permettere una vera ripresa di chi, per ora, non ha gli strumenti necessari.
E poi ci vogliono segnali veri: Fassino, per dirne uno, non ha ancora lasciato il seggio di deputato, come aveva promesso in campagna elettorale a Torino. Continua a rimandare. Temporeggia. Come tutto il PD.
Intanto però il treno sta passando. E visto che potrebbe essere un TAV, sarà il caso di decidersi. 
Fosse anche solo per liberare i binari. 

sabato 2 luglio 2011

Leadershippati.

Per tanti anni si è sentito parlare di personalizzazione della politica, ossia di quel processo che fa sì che ci si identifichi coi leader dei singoli partiti senza curarsi troppo dello schieramento in sè. L'Italia del dopo Tangentopoli ha vissuto sull'eterno referendum tra favorevoli e contrari a Silvio Berlusconi. Il suo ingresso in politica prometteva di cambiare la storia del nostro paese, ma il risultato finale è stato decisamente misero: una classe dirigente sempre più corrotta, professionisti delle poltrone ben ancorati al proprio posto, meritocrazia azzerata e cooptazioni mirate. Il tutto sulla pelle di un popolo la cui sovranità costituzionale suonava sinistramente beffarda di fronte a cotanta arroganza. Formalmente sovrani, sostanzialmente sudditi, i cittadini hanno ultimamente manifestato il loro sdegno per questo modo curioso di intendere gli affari pubblici. Sia chiaro che le colpe di tale deriva sono da estendere all'intera classe parlamentare che ha contraddistinto la recente storia repubblicana. Una parola straniera ha preso piede nel linguaggio politico italiano, stroncando sul nascere le plurime e legittime riflessioni popolari: leadership. Parola ripetuta come un mantra obbligatorio dalle forze in gioco, più preoccupate di trovare un simbolo visivo che una più urgente sintesi concettuale. Così tutti hanno aspettato il demiurgo, il principe machiavellico pronto a risolvere i molteplici problemi all'orizzonte, un qualcuno che fosse capace di trascinare le folle. 

Si è arrivati così alla sovraesposizione dei leader, dalle cui dichiarazioni si giocava il destino di tutti. Leader o meglio padroni fintamente democratici, legittimati da una legge elettorale sconcertante a nominare i rappresentanti di 60 milioni di cittadini. 
Nel PdL si sente spesso ripetere la formula "leadership indiscussa", ossia la perfetta aberrazione della dialettica politica, il completo svuotamento dell'essenza democratica. Dall'altra parte invece la discussione è stata ben più accesa, ma ha per lo più riguardato lotte di potere interne e non un reale scontro su visioni diverse.
Sto leggendo un libro molto interessante di Antonio Vitullo, filosofico esperto di marketing , che distrugge il concetto di leadership. Il titolo è fortemente simbolico: "Leadershit". L'idea di fondo è quella di rottamare la mistica del capo che indica la via ai propri seguaci per cambiarla con una più razionale presa di coscienza collettiva che renda più orizzontale l'intera società. "C'è tanto oggi sotto i nostri occhi. È importante riuscire ad andare oltre le solite parole. Leader, leadership, modelli per organizzare e farsi organizzare dal mondo, retoriche e mitologie che ci avvolgono come un velo sottile a confondere e coprire altri punti di vista sulla realtà".
In un mondo in cui diventa sempre più facile acquisire conoscenze, l'idea weberiana del potere carismatico appare sempre più anacronistica. È finito il tempo dei plebisciti e delle investiture. Meglio investire su se stessi e smettere l'abito da "fan". È ora di pensare con la propria testa, di cercare nuove strade, senza farsi etichettare in via pregiudiziale.
Questa sarebbe l'alba di una vera res publica. 

lunedì 20 giugno 2011

Pontida val bene un po' di grida.

Tutta fiction. Sul pratone di Pontida si consuma l'ennesima farsa leghista, la solita rimpatriata tra vecchi compagni di lotta. Una volta sognavano di spostare una nazione, adesso si ritrovano a invocare lo spostamento di un paio di ministeri senza portafoglio. La base, accorsa in massa al raduno, mal sopporta la strategia attendista dei suoi dirigenti. Il discorso di Bossi viene interrotto più volte dalle gridate richieste di secessione del pubblico. In quella richiesta c'è un qualcosa di nostalgico; c'è la voglia di ritrovare quella Lega degli inizi che prometteva di scardinare il potere e non di diventarne ingranaggio manovrato. Non è solo una richiesta geografica, ma soprattutto un desiderio di affrancarsi dal berlusconismo, una secessione da chi ha usato il Parlamento per farsi leggi su misura usando i voti leghisti.
Le risposte dal palco però sono tiepide e non scaldano i cuori dei militanti che vogliono azione, senza giri di parole né giochi di palazzo. Chiedono concretezza ma l'unica cosa tangibile che ottengono è la comica targa del prossimo ministero a Monza, feticcio di un potere che non esiste. Nel mostrare quel simbolo alla loro gente, Bossi e Calderoli non si accorgono di quanto la loro sbandierata purezza padana sia contaminata dalla vituperata Roma ladrona. Raccolgono firme per attuare un decentramento anticostituzionale ma soprattutto poco importante per gli stessi padani, a cui poco interessa avere il ministero come vicino di casa se all'interno si continuano a fare gli interessi di altri.
Le camicie verdi applaudono il loro leader malconcio consapevoli di rappresentare il suo bastone della vecchiaia, grati per le lotte intraprese e scettici per l'incompiutezza effettiva di molte di esse. Il Senatùr parla a fatica, ma le sue parole risulterebbero di difficile comprensione anche se fossero lette da Ugo Pagliai.
Minaccia di non appoggiare più Berlusconi se non verrà data un'accelerata alle riforme richieste dal suo partito. Tanta demagogia mal pronunciata; l'anno scorso il senatore Stradiotto del Pd presentò un emendamento alla manovra finanziaria chiedendo di circoscrivere a urgenze particolari l'uso delle auto blu. La Lega votò contro, anche se dal palco di Pontida il suo leader grida contro di esse.
Insulta i giornalisti "coglioni" e "stronzi", sproloquia sui cicli storici sbagliando di una ventina d'anni la fine della Destra storica. Ostenta preoccupazione per le masse di profughi sbarcati dalla Libia, in verità 14000 in tutto, una quota del tutto gestibile. Avvisa Tremonti, gesticola, bofonchia. L'ultimatum a Berlusconi è poco credibile e la gente, che acclama solo Maroni, lo sa.
Ricorda quelle innamorate disposte a perdonare sempre l'amato traditore. La primordiale intransigenza leghista è molto sbiadita nei suoi dirigenti. Mettere il ministero vicino a casa non significa voler stare in mezzo alla propria gente, ma forse solo stare più comodi. È dura fare la rivoluzione dalla poltrona. A Monza o a Roma ha poca importanza.

giovedì 9 giugno 2011

Tu chiamale se vuoi evasioni.

È opinione diffusa che gli italiani non abbiano uno spiccato senso civico e che il degrado delle istituzioni nazionali derivi anche da una tendenza autolesionista a radicalizzare qualsiasi scontro. Il patriottismo è stato a lungo un valore occasionale, per di più legato a eventi sportivi, e gli interessi individuali sono stati tendenzialmente anteposti al bene comune. Bisogna però anche riconoscere che i nostri connazionali sono sempre stati in grado di ritrovare una certa unità d'intenti per superare i momenti più cupi: gli esempi delle due guerre sono una chiara testimonianza in tal senso, così come il superamento degli anni di piombo e dell'odissea giudiziaria di Tangentopoli. In quei momenti il popolo ha preso coscienza della situazione e ha affrontato di petto i problemi.
Cesare Battisti, patriota.
Nelle città in cui abitate è molto probabile che ci sia una strada o una piazza intitolata a Cesare Battisti e la targa sarà probabilmente completata dalla dicitura 'eroe nazionale'. L'uomo di cui si parla fu un irredentista trentino, socialista, arruolatosi nell'esercito italiano per combattere l'Austria; la sua lotta per liberare Trento finì nel luglio del 1916, quando fu catturato dalle truppe nemiche e impiccato dopo un processo sommario; avrebbe potuto salvarsi ma rivendicò fino in fondo gli ideali che lo avevano portato allo scontro. Le testimonianze dell'epoca dicono che le sue ultime parole furono "Viva l'Italia!", un grido che avrebbe spinto gli altri combattenti a perseguire l'unità territoriale del paese.  
Cesare Battisti, latitante in Brasile.
Una sessantina di anni dopo, in un'Italia riunificata e repubblicana, un altro Cesare Battisti si affacciò sulla scena con l'intento di dividere ciò che era stato faticosamente unito. Erano gli anni di piombo, un periodo in cui si moriva per le strade per divergenti visioni politiche ma anche solo perché capitava di trovarsi nel mezzo a questa criminale degenerazione ideologica. Battisti apparteneva ai Proletari armati del comunismo (Pac), una di quelle tante formazioni createsi in quegli anni da una parte e dall'altra della barricata, uno di quei troppi gruppi che portarono un'Italia insanguinata sull'orlo della guerra civile. 
Nel perseguire i propri ideali, l'omonimo dell'eroe di guerra, si macchiò di quattro delitti e fu per questo  arrestato e condannato all' ergastolo. Questo Battisti scelse però una via diversa: approfittando delle lacune nella sicurezza del carcere di Frosinone, fuggì dall'Italia e dalla propria coscienza; riparò in Francia, dove una sgangherata prassi giudiziaria, la dottrina Mitterrand, gli permise di vivere lì come rifugiato politico. Dimenticò in fretta la lotta proletaria, sposando la causa salottiera, facendo comunella con quella gente alto borghese a cui pochi anni prima avrebbe puntato una pistola alla tempia. Quando  la comunità europea sconfessò la dottrina, fu costretto di nuovo alla fuga, entrando in quel Brasile che poco dopo lo arrestò per falsificazione di documenti. Una cosa normale per uno che aveva barattato l'identità. Il rifiuto di estradizione è storia di questi giorni e per approfondire il profilo giudiziario ho consultato un ricercatore di diritto internazionale, Domenico Pauciulo dell'Università del Molise.
Domenico Pauciulo,
esperto di diritto internazionale
La sua spiegazione è chiarissima: "L'intera vicenda dimostra la debolezza politica dell'Italia in politica estera. Nel diritto internazionale sono molto rilevanti i rapporti di forza e le azioni diplomatiche: la nostra classe politica ha mostrato debolezza nel non saper imporre le proprie ragioni e nel far valere i trattati bilaterali col paese sudamericano. Il trattato del 1989 stipulato col Brasile prevede che siano riconsegnate al paese di origine le persone ricercate o coloro che devono scontare le pene comminate dal proprio ordinamento giudiziario.
 Tuttavia l'accordo prevede una serie di clausole che consentono alla nazione ospitante di non estradare una persona che corra il rischio di essere perseguitato per reati politici o processato per essi. Il Brasile ha riconosciuto lo status di rifugiato politico, attraverso un provvedimento firmato a fine mandato dal presidente uscente Lula, deputato a giudicare la questione, in quanto problema di politica estera. Il ricorso dell' Italia è stato rigettato dal Tribunale supremo e il nostro governo si trova davanti solo strade in salita per giungere a conclusioni positive; improbabili missioni speciali per prelevare il latitante; sterili sanzioni economiche, completamente irrisorie considerata la crescita economica del Brasile; oppure un complesso percorso giudiziario, fondato su un già annunciato ricorso alla Corte internazionale di giustizia per la violazione del suddetto trattato dell'89 e per l'inadempimento del Trattato di Vienna sul rispetto dei trattati.
Tuttavia il ricorso deve essere preceduto da un tentativo di conciliazione, come previsto dalla Conciliazione degli ordinamenti giudiziari stipulata nel '54; nel caso che falliscano, come probabile, gli obbligatori negoziati diplomatici e tentativi di compromesso, si giungerà alla Corte, che non ha però un potere di sanzione assoluto. È quindi possibile che dopo questo lungo iter, seppure in presenza di una pronuncia favorevole, l'Italia sia ricompensata con un semplice risarcimento monetario o beffarde scuse ufficiali".
Tirando le conclusioni, appare sconcertante l'idea che la comunità internazionale si è fatta del nostro sistema di giustizia. Prima Mitterrand,poi Lula hanno reputato l'Italia incapace di processare serenamente gli autori di efferati crimini, temendo nell'incuria e nell'estremismo di una magistratura politicizzata. Che ironia sentire il nostro premier parlare di brigatismo giudiziario e vedere manifesti del Pdl invocare la cacciata delle Br dalle procure. Se così fosse, gli strenui difensori di Battisti lo avrebbero imbarcato sul primo aereo.
 

mercoledì 8 giugno 2011

Lei non si rende conto. E non si arrende ai conti.

Michele Santoro.
Giovedì sera Michele Santoro sarà per l' ultima volta un conduttore della Rai. Condurrà la sua ultima puntata di Annozero e poi, con tutta probabilità, passerà a La7. "È il mercato, non ci trovo niente di grave". Chi pensereste che possa aver pronunciato questa frase? Potreste pensare a Santoro stesso, perché un giornalista così ascoltato e seguito dal pubblico potrebbe cercare di strappare un contratto migliore in una tv privata meno sottoposta a vincoli economici e politici; ma sappiamo bene che l'intento divulgativo e la passione per il proprio lavoro non  avrebbero mai fatto fare una scelta venale e fredda a un giornalista molto legato alla sua redazione. Allora potreste pensare che sia stata l'azienda stessa a fare questa dichiarazione; assolutamente no; la Rai, dalla nuova direzione generale all'ultimo fattorino, sa benissimo quanto Annozero abbia fatto guadagnare in termini economici alla rete: 6 milioni di guadagno all'anno, un'audience media di 5 milioni e mezzo di spettatori, pari al 21% di share.  Una mosca bianca nel grigio palinsesto di Rai 2, mai sopra l'8% di share nelle altre prime serate. Ragionando in termini di mercato, sarebbe una scelta suicida cacciare un conduttore con uno stipendio da 600 mila euro annui che consente all'azienda un guadagno di dieci volte superiore.
Cominciamo allora con lo svelare l'autore della frase: il super tuttologo Daniele Capezzone, ex radicale con aria da saccente primo della classe, ora portavoce del PdL, ma sempre arrogante e inopportuno. Per quanto sia ovvio come sia stato il mercato più che la credibilità politica a guidare le scelte dell'ex delfino di Pannella, appare stupefacente vedere come un  liberale-liberista come lui,  non riesca a rendersi conto di come un'azienda, pubblica o privata che sia, possa fare una scelta così azzardata, compromettendo la sua competitività economica. Perché non dire la verità e non parlare di "politica aziendale"?
Daniela Santanchè.
Mentre Belpietro e Sallusti dalle loro prime pagine gioivano per il fatto che i cittadini non avrebbero più pagato l'odiato tribuno nemico, dimenticando però di ricordare come i loro poco sfogliati quotidiani usufruiscano di laute sovvenzioni statali, la naturale verità sul caso arrivava dalla bocca artificiale di Daniela Santanchè: "Santoro chiude? Evviva! Mi invitava sempre al suo programma per far fare brutta figura alla destra".
Una frase impareggiabile, un'inattesa presa di coscienza di una classe dirigente che ammette di non essere in grado di sostenere un dibattito su certi livelli, ma che non per questo rinuncia ad apparire. Meglio eliminare il problema Santoro e continuare a far credere di essere molto intelligenti nel salotto strappalacrime di Barbara D'Urso. 
Lorenza Lei, direttore generale Rai.
Non tutto il male viene per nuocere comunque. Santoro andrà in una rete che sta raccogliendo i patrimoni lasciati per strada dalle timorate tv generaliste; dovrà garantire ascolti, forse non potrà sperimentare come vorrebbe da subito nuove forme di informazione, ma quando porteranno le sue "cassette" a Palazzo Grazioli, lui potrà continuare a fare il suo lavoro senza condizionamenti. Lui, quello che telefona in diretta, forse non sarà neanche più al governo e magari dovrà rispondere di altre telefonate. Lei, quella che fa così di cognome, probabilmente si renderà conto di aver commesso uno sbaglio. Noi, quelli col telecomando, sapremo cosa scegliere.  

lunedì 30 maggio 2011

Venti ed eventi travolgenti.

Pisapia, sindaco di Milano.
Era nell'aria. Forse non eravamo consci di quanto fossero forti queste folate e dubitavamo del fatto che un generico  dissenso potesse trasformarsi in un risultato elettorale così chiaro. Da mesi le piazze venivano riempite da manifestazioni che contestavano il governo;  la convinta celebrazione popolare dell'unità d'Italia opposta allo scetticismo leghista e la presa di coscienza delle donne italiane, sfociata nell'oceanica adunata dello scorso febbraio, sono solo gli esempi più eclatanti.  
La discesa in campo di Berlusconi nel '94 aveva generato entusiasmi trasversali; un imprenditore di successo, così lontano nei modi e nel percorso personale da quella vetusta classe dirigente della Prima repubblica, aveva illuso una popolazione storicamente avvezza ad affidarsi a una figura forte ed apparentemente innovativa nei momenti più cupi. E' durato molto l'idillio, seppur contraddistinto da fisiologici alti e bassi: una consistente parte del paese ha avuto una fiducia quasi incrollabile nei suoi confronti, perdonandogli una perenne asimmetria tra promesse e risultati effettivi. D'altra parte l'alternativa era latitante: una sinistra litigiosa, incapace di far convergere in una posizione unitaria la sua complessa dialettica interna, ha steso il tappeto rosso per anni al berlusconismo. La confusione del centrosinistra ha allontanato un elettorato che pretendeva risposte chiare a problemi specifici; così la semplicistica narrazione politica del PdL ha affascinato cittadini smarriti, poco propensi a seguire le diatribe dello schieramento opposto. I guai giudiziari e personali del premier non sembravano scalfire il generale consenso attorno alla sua coalizione, sospinta da una Lega capace di cavalcare la volontà di arroccamento settentrionale, sia verso il centralismo romano, sia verso le ondate migratorie. 
Il politologo Lazar diceva che Berlusconi e i suoi avevano vinto una guerra di valori; ed è proprio da una repentina svolta valoriale che è nata questa rivoluzione di maggio. In presenza di una situazione economica sempre più precaria, la gente ha trovato rivoltante l'approccio volgare e offensivo dell'ultima campagna elettorale: non ha più riso alle barzellette misogine di un presidente lontano anni luce dai problemi di una società evoluta, consapevole e indignata. I suoi candidati non hanno dato risposte, mettendo in piedi una cervellotica campagna fondata sull'odio e non sulla proposta. Stavolta gli italiani si sono ribellati a questa deriva civile: lo hanno fatto stringendosi intorno alla moderazione di Napolitano, ritrovando i suoi toni pacati nella positività di Pisapia e la sua rettitudine in Luigi De Magistris,  uomo proveniente da quella magistratura tanto derisa a destra; hanno sentito il bisogno di legalità, diffidando delle oscure collusioni di Lettieri a Napoli; hanno capito l'irreversibilità del processo multietnico, sbarazzandosi dello strisciante razzismo della Moratti a Milano; in generale hanno apprezzato un modo di fare politica diverso, una politica partecipata, fatta di primarie e presenza territoriale.
De Magistris e la festa di Napoli.
Così la sinistra ha colmato il gap mediatico, coinvolgendo e dando speranza a un popolo stanco di delegare. Così ha vinto e così dovrà governare, sfruttando questo ritrovato entusiasmo, senza smettere di ascoltare la sua base allargata. Le aspettative create non possono essere disattese. Sarebbe imperdonabile.  

giovedì 26 maggio 2011

Ladri di parole.

Il parlamento.
Diceva Kipling che le parole sono la più potente droga usata dal genere umano; Hugo le definiva "passanti misteriosi dell'anima". La politica dal canto suo è anche persuasione e la terminologia usata dai suoi attori ha segnato i loro percorsi. Come avevamo visto qualche giorno fa, il termine "partito" implica di per sè già una chiara scelta di campo, presupponendo la volontà di schierarsi, da una parte o dall'altra. La loro crisi è in parte attribuibile alla liquidità dei nostri tempi, ad una precarizzazione delle ideologie unita ad una diffusa insofferenza verso l'indottrinamento.
Certamente i partiti non sono più quei pachidermici apparati di qualche decennio fa, ma mantengono una sostanziale ipocrisia nel loro modo di porsi. La loro arroganza emerge dai nomi stessi degli schieramenti; la comunicazione politica è stata rivoluzionata dal carattere frenetico della nostra società, dalla necessità di attirare l'attenzione attraverso slogan ed espressioni brevi e significative. Tuttavia ciò non giustifica il furto di parole perpetrato dalla politica italiana; prendiamo ad esempio il termine più ricorrente dell'onomastica partitica: libertà; un concetto per il quale intere generazioni hanno lottato al fine di rendelo universale e su cui nessuna forza democratica dovrebbe mettere il cappello; invece una dilagante demagogia ha permesso che, non solo il monocratico partito attualmente al governo ne facesse uso, ma che fazioni politiche di diversa estrazione se ne attribuissero il titolo: Futuro e Libertà a destra, Sinistra Ecologia e Libertà dalla parte opposta. Senza dilungarsi su anacronistiche analisi storiche dei due schieramenti, appare comunque discutibile l'idea di segnare il proprio territorio usando parole che dovrebbero appartenere al patrimonio culturale e lessicale di tutto il Paese. La ragione di questa ricerca di sensazionalismo negli appellativi  trova spiegazione nella fragilità del nostro sistema politico, costantemente incapace di trovare una qualsiasi stabilità e sempre pronto a inseguire l'umore popolare; è pratica diffusa quella di cercare nomi e acronimi politici attraverso ricerche di mercato, cercando quelli che suonano meglio, senza curarsi troppo di riempire di significato quelle parole. E' cosi anche nel centrosinistra, che dopo aver esplorato tutti i campi della botanica, ha ripiegato sull'aggettivo democratico, nella speranza americaneggiante di "bipolarizzare" la contesa e scegliendo di fatto di emarginare voci provenienti da forze concettualmente contigue.
C'è chi poi come Di Pietro ha messo in primo piano i "valori"; probabilmente i suoi elettori avrebbero voluto sapere a quali si riferisse quando ha fatto eleggere Scilipoti in parlamento. E proprio il Danny De Vito di Montecitorio ha coniato per il suo sparuto gruppo di tardivi sostenitori del governo una denominazione originale: i Responsabili. E del resto come appellare in altro modo persone che hanno così a cuore la cosa pubblica? L'hanno fatto per amore della nazione, dicono. Le poltrone piovute dopo sono la naturale conseguenza di cotanto patriottismo.
Già,la patria: sembra che il prossimo nome del Pdl non sarà "Partito dell'amore": il marchio fu registrato dai sostenitori di Moana negli anni '90 ed è inutilizzabile; pare che si chiamerà semplicemente "Italia". Ecco, adesso ho un po' di nostalgia della Prima Repubblica: almeno lì le cose si chiamavano col loro nome.